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Giustizia e libertà: i Cento passi di Impastato e la sfida della bellezza

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà'”. La lezione di Peppino Impastato forse è tutta qua. Era il sogno-profezia anche di Paolo Borsellino: “Questa terra diventerà bellissima”. Bruttissima per loro è la mafia, per Paolo insopportabile “puzzo del compromesso”, per Peppino, ucciso 46 anni fa, “una montagna di merda”. C’è un cammino da compiere, però che, certo, non è eterno, ha detto una volta Giovanni Falcone, perché la mafia è un fenomeno umano che verrà meno. Ma nel frattempo c’è un percorso che tutti devono intraprendere. Sono quei ‘Cento passi’ che possono segnare la differenza. A Cinisi, paesino siciliano schiacciato tra la roccia e il mare, nei pressi dell’aeroporto, dove decollava il traffico di droga, quel breve incedere separa la casa di Peppino Impastato, giornalista, uomo di cultura e giornalista, da quella di Tano Badalamenti; storie di diversissimo genere, eppure della stessa Sicilia. Ragazzo intelligente che non accetta il silenzio opposto al suo sforzo di capire, nel 1968 Impastato si ribella come tanti giovani al padre. Ma il suo ha precisi legami e parentele. Così, per Peppino la ribellione diventa sfida allo statuto della mafia, ai legami di sangue e di affari, ai silenzi e alle connivenze della politica e di certa informazione, e ha un prezzo altissimo come sarebbe stato chiaro il 9 maggio del 1978, quando è stato trucidato. Con “Radio Aut” che infrange il tabù dell’omertà e con l’arma del ridicolo che distrugge il falso onore della mafia, Tano Badalamenti diventa “Tano Seduto”, Cinisi è “Mafiopoli”, emblema di una criminalità organizzata sempre più ‘sistema’, con la sua fitta rete di alleanze e infiltrazioni. 

Impastato si presenta alle elezioni comunali, ma due giorni prima del voto, nella primavera del 1978, lo fanno saltare in aria sui binari della ferrovia con sei chili di tritolo. La morte coincide con il ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro e viene rubricata come suicidio o atto terroristico. Solo venti anni dopo la procura di Palermo rinvierà a giudizio Tano Badalamenti come mandante dell’assassinio. Il regista Marco Tullio Giordana nel 2000 racconta tutto questo con un film, “I cento passi”, che ridesta nel Paese la passione e l’indignazione per questa storia, facendo conoscere anche la figura eccezionale della madre di Peppino, Felicia, fragile e fortissima, una lama di cristallo conficcata nel cuore della mafia antica, morta il 7 dicembre 2004, a 88 anni: tiene alto come un vessillo la memoria del figlio e, durante il processo, punta il dito e lo sguardo contro il boss Badalamenti collegato in videoconferenza. L’11 aprile del 2002, dopo 24 anni, così, arriva la condanna all’ergastolo che spazza definitivamente via i tentativi di depistaggio cominciati già la mattina di quel 9 maggio. I giudici della terza sezione della Corte d’assise, presieduta da Claudio Dall’Acqua, giudice a latere Roberto Binenti, spiegano nelle motivazioni della sentenza che “il pericolo costituito da tanta irriverente ed irritante rottura del muro dell’omertà era vieppiù palpabile da far ritenere che la soluzione del problema fosse necessaria ed anche impellente, stante peraltro che il giovane di lì a poco, secondo attendibili previsioni, sarebbe stato eletto consigliere comunale”

Al giudice americano Pierre Leval che a ‘Tano seduto’, arrestato a Madrid l’8 aprile del 1984, chiede se fosse un componente di Cosa nostra, egli spavaldo risponde: “Se lo fossi non ve lo direi, per rispettare il giuramento fatto”. Questo feroce mafioso vecchio stampo è raccontato e sbeffeggiato da Impastato attraverso le frequenze della sua radio: “Ci sarà anche un porticciolo bellissimo… già in costruzione… e potremo sistemare le nostre veloci canoe che porteranno al di là del mare la sabbia bianca… tabacco… bianco come la neve”. La connessione tra il suo assassinio e il boss è per la prima volta rilanciata con forza nel maggio del 1984, quando l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del consigliere istruttore Rocco Chinnici, che aveva avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emette una sentenza, firmata dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto, in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però a ignoti. Il Centro Impastato pubblica nel 1986 la storia di vita della madre di Giuseppe Impastato, nel volume “La mafia in casa mia”, e il dossier “Notissimi ignoti”, indicando come mandante del delitto il boss Gaetano Badalamenti, nel frattempo condannato a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla “Pizza Connection”. Nel gennaio 1988 il Tribunale di Palermo invia una comunicazione giudiziaria a Badalamenti. Nel maggio del 1992 decide l’archiviazione del “caso Impastato”, ribadendo la matrice mafiosa del delitto, ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei “corleonesi”. Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Salvatore Palazzolo, che indica in Badalamenti il mandante dell’omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo, l’inchiesta viene formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 10 marzo 1999 si svolge l’udienza preliminare del processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti viene stralciata. Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si costituisce un comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 è approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise riconosce Vito Palazzolo colpevole e lo condanna a 30 anni di reclusione. L’anno dopo arriva la condanna all’ergastolo per Badalamenti. E nel 2010 le chiavi della sua casa sono consegnate all’Associazione culturale Impastato. E’ uno dei traguardi di quei cento passi.

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