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Sicilia. Storia di un tesoro storico: il Salto d’Angiò ad Aragona. Attivate dalla Soprintendenza le procedure di tutela

Redazione 1

Sicilia. Storia di un tesoro storico: il Salto d’Angiò ad Aragona. Attivate dalla Soprintendenza le procedure di tutela

Mar, 23/04/2024 - 19:34

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Un tesoro che non tutti conoscono e che, oggi, andrebbe recuperato per evitare che possa ulteriormente deteriorarsi sotto l’azione lenta quanto inesorabile del tempo. Si tratta della possente torre del “Salto d’Angiò”, si trova a 5 Km da Aragona (AG).

Costruito su un banco di arenaria, è situato in posizione strategica sulla sommità di una collina che domina l’intera vallata del feudo Muxaro dove – proprio sotto, vi scorre il suggestivo fiume Platani. La struttura è inglobata in un casale costruito alla fine del XVIII sec. ed ha una forma rettangolare; si presenta con tre ordini finestrati: il primo e il terzo con finestre bifore a tutto sesto ed il secondo con monofore a sesto acuto. La sua imponente mole si erge al centro di tre cortili, dove un tempo si trovavano gli ambienti della masseria. Sebbene tutto il complesso versa in uno stato di grave abbandono, tanto che è visitabile solo all’esterno, al “Salto d’Angiò” non manca certo di essere una struttura di eccezionale fascino, grazie all’austero e incantevole paesaggio.

In base ad alcuni documenti storici, nel 1200, Federico II donò al vescovo Ursone il castello di Minzar (in arabo “El Minzar” significa panorama) e il casale di Muxaro con tutti i suoi territori. Alla morte del vescovo, il re ordinò ai canonici agrigentini di nominare Raimondo D’Aquaviva quale successore dei beni. Successivamente, intorno al 1300 il vescovo Bertoldo donò il casale a Francesco da Todi, che preferì cedere i terreni a Giovanni di Chiaramonte, in cambio del castello di Morgidiar. Alla morte dell’ultimo erede della Famiglia Chiaramonte, tutti i loro beni furono confiscati e donati dal Re Martino a Filippo de Merino. Molti secoli dopo, verso il 1750, gran parte dei feudi di Muxarello e Cantarella divenne proprietà della famiglia Morreale. Nel 1848 Giuseppe II Morreale fece edificare nuovi ambienti intorno alla Torre.

Il bene è a tutt’oggi proprietà di privati. “Si tratta di un bene di elevato pregio storico-architettonico sia per la conformazione dalla Torre e dell’intera masseria, sia per la posizione dominante nel paesaggio rurale di cui la Torre del Salto costituisce elemento imprescindibile”. “Considerato che questo complesso di notevole importanza storico-artistica versa in stato di totale abbandono e decadenza a causa dell’assenza di interventi di manutenzione – ha scritto ancora la Soprintendenza -, l’ente ha già messo in atto le procedure di competenza”. A scrivere in risposta alla nota inviata dal Centro Studi Chiaramontani è la Soprintendenza di Agrigento riguardo la Torre del Salto d’Angiò, nota anche col nome “a Turri”.

 Fino a pochi anni or sono la torre presentava lo stemma della famiglia Chiaramonte in facciata, che però è stato trafugato. Una condizione inaccettabile per il Centro studi chiaramontani presieduto dal professor Calogero Saverio Vinciguerra, che alcuni mesi fa ha inoltrato un esposto alla Soprintendenza di Agrigento nel quale si faceva presente l’abbandono del Bene culturale. Adesso la Soprintendenza se ne prenderà carico. A denunciare la situazione di totale degrado dell’ultima dimora di Giovanni Chiaramonte è stato il Centro di Studi Chiaramontani. E’ un bene storico vincolato, ma versa in uno stato di abbandono profondo e, probabilmente, irreversibile.

Una condizione inaccettabile per il Centro studi chiaramontani presieduto dal professor Calogero Saverio Vinciguerra, che nel suo esposto inoltrato alla Soprintendenza di Agrigento faceva presente non solo l’abbandono del Bene culturale, ma anche “la totale inaccettabile arbitraria disapplicazione di tutte le norme relative alla tutela”. Recente furto dello stemma baronale dalla  torre del salto D’Angiò di Aragona, del 3 Marzo 2020, sento il dovere di intervenire, per una serie di motivi. Capita di ricordare il valore dei gioielli che costellano il nostro territorio soltanto quando questi scompaiono, accada questo per incuria o perché qualcuno (che in fondo tuttavia, probabilmente ne ha intuito più di altri il grande valore) se ne appropria indebitamente come in questo caso.

L’evento rappresenta l’ennesima mortificazione del nostro territorio, tra l’altro già fiaccato e svilito dall’incuria, dall’abbandono e dal totale disinteresse dei più; operazioni come quella del furto si rivelano fin troppo facili vista la generale assenza di adeguate misure di sorveglianza dei nostri beni culturali. Lo stemma marmoreo in questione infatti, è stato trafugato qualche settimana fa dalla facciata dello storico edificio conosciuto come “Salto d’Angiò”, nonostante fosse murato a una cospicua altezza. Il tutto eseguito, previo l’allestimento di un acrobatico “ponteggio” adatto allo scopo, con apparente disinvoltura.Questo ignobile atto rappresenta per la storia del territorio e per la identità siciliana una perdita di straordinaria gravità, in quanto quel reperto, nonostante il passaggio dei secoli, continuava a raccontarci quello che è stato il nobile e glorioso regno di Sicilia, narrandoci molto di più di quanto crediamo di conoscere delle vicende storiche di cui la nostra terra è stata protagonista.

Lo scudo denota e conferma quell’unico e intimo rapporto tra il Regno di Sicilia e la Corona di Aragona, nella fattispecie con la sua parte catalana. Molte sono state le famiglie che hanno segnato gli accadimenti storici di Sicilia; Il Salto stesso, con tutti i terreni intorno appartenne ai Chiaramonte.

Lo stemma trafugato rappresenta una concreta testimonianza di questa famiglia, e acquisisce un valore storico altissimo, trattandosi infatti di un raro emblema riconducibile ai Chiaramonte e non ai Pujades come finora sostenuto, risalente precisamente all’arrivo della famiglia nell’Isola. Lo dimostra il fatto che l’elemento iconografico è perfettamente sovrapponibile all’emblema chiaramontano di matrice catalana: lo stesso stemma dei Chiaramonte infatti raffigura per la precisione un giglio che sormonta una collina. Cercando in queste settimane risposte ai miei interrogativi, ho potuto riscontrare quante informazioni porti con sé un “semplice” stemma di famiglia, e credo che i risultati dell’indagine da me condotta rimodellino molta della precedente letteratura relativa ai Chiaramonte.

La famiglia è sì di origine francese, ma è presente in Catalogna già dal IX secolo quando i francesi, insieme ai catalani e agli aragonesi, impedirono ai musulmani di valicare i Pirenei. Pertanto, dopo qualche generazione vediamo la famiglia perdere pressoché interamente la componente identitaria francese e rivendicare le proprie radici e la propria memoria storica come totalmente affondate nella cultura catalana, portando il nome di Claramunt.

Lo stesso succederà ai Chiaramonte arrivati Sicilia, che dopo qualche generazione proveranno una percezione totalmente siciliana e integrata di sé. Un membro della famiglia, Giovanni Chiaramonte, aveva già partecipato ai Vespri Siciliani un secolo addietro.

Prima che Martino acquisisse la Sicilia, un gruppo di nobili sediziosi a lui avversi aveva già congiurato e mirava a forme accentrate di gestione del potere nell’isola; accordo questo, stipulato in seguito al cosiddetto “Giuramento di Castronovo” (1391) che li vedeva coinvolti. Capo dei ribelli era lo stesso Andrea Chiaramonte. Martino I interverrà personalmente con l’intento di sedare la rivolta, operazione effettuata con successo e culminata nell’acquisizione del regno; procederà quindi a privare i baroni ribelli di ogni privilegio e delle proprietà in loro possesso; come detto Andrea Chiaramonte si qualificava come figura di spicco nella ribellione, e ne pagherà le conseguenze appieno, venendo decapitato.

Tutti i suoi beni furono confiscati e redistribuiti tra i nobili, incluso il  Salto d’Angiò. Se lo stemma è rimasto indisturbato (fino a poco tempo fa) sulla facciata del castello per secoli, è stato soltanto per il rispetto che i subentrati proprietari, di volta in volta, provarono verso Andrea Chiaramonte, e la sua famiglia; egli era pur sempre morto da leale avversario, portando avanti la sua causa fino in fondo. La storia del feudo, e con questo di conseguenza l’annesso  Salto d’Angiò, si articola in vari passaggi: dapprima Martino I, acquisito il titolo di Re di Sicilia e confiscato il bene ai Chiaramonte lo riassegnerà ai Moncada (o Montecateno), precisamente a Guglielmo Raimondo Moncada.

Caduti subito in disgrazia anche i Moncada per alcune pesanti accuse a Guglielmo, da questi il territorio passerà nelle mani di De Marinis; da questa famiglia passerà poi ai Tagliavia (di Aragona), in dote a Maria De Marinis che sposerà Giovanni Aragona di Tagliavia. Questa unione consoliderà il marchesato della Favara unendolo a quello di Muxaro. La De Marinis era infatti già marchesa della Favara e portò il titolo in dote. Ad acquisire i possedimenti saranno successivamente i Naselli.

Il discorso è quanto mai rilevante in un momento delicato come questo, dove rischiamo ogni giorno di perdere un tassello del ricchissimo mosaico che compone la storia della nostra terra. Sicuramente la strada da imboccare per risollevare l’onore della Sicilia è ben altra rispetto a quella che stiamo percorrendo, sta a noi virare al più presto verso il sentiero giusto.

Molti sono stati gli appelli al recupero conservativo del  Salto d’Angiò caduti nel vuoto, e credo che sarebbe opportuno stabilire una volta per tutte dei vincoli che garantiscano la tutela sul sito e una presa di coscienza dei cittadini e delle istituzioni per preservarlo e valorizzarlo affinché possa giungere anche ai nostri discendenti, salvando in questo modo la memoria storica genitrice della nostra identità. “La battaglia continua – scrive ancora Vinciguerra – non sarà certo questa risposta a fare abbassare la guardia; teniamoci pronti per la grande manifestazione che stiamo predisponendo in difesa della Torre del Salto, in difesa della nostra storia e dei nostri beni culturali. Ricordando che l’applicazione delle leggi è già grande segno di civiltà”. E’ un bene storico vincolato, ma versa in uno stato di abbandono profondo che necessiterebbe di essere recuperato adeguatamente.  

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