L’integrazione degli alunni stranieri nel sistema scolastico è un tema che torna alla ribalta ed accende il dibattito sia politico che sociale
La posizione del vice ministro Matteo Salvini, che ha definito la situazione della scuola di Pioltello come “un arretramento”, è in netto contrasto con quanto invece esprime il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Vedremo adesso altre reazioni, visto che il Rettore dell’Università per stranieri di Siena, ha disposto la chiusura per il 10 aprile, fine del Ramadan.
Dell’integrazione degli alunni stranieri nelle scuole italiani, non è la prima volta che se ne parla.
Già la ministra Mariastella Gelmini, con la circolare numero 2 dell’8 gennaio 2010, “indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana”, fissava al30% la presenza massima di alunni stranieri nelle classi delle scuole elementari, medie e superiori. Tale limite, però, non era fisso e poteva essere modificato, lasciando una certa flessibilità.
Includevano anche l’utilizzo di ore dedicate all’insegnamento dell’italiano, una certa autonoma da parte delle scuole nella distribuzione degli alunni stranieri nelle classi Queste iniziative miravano a garantire che tutti gli studenti possano beneficiare di un’educazione inclusiva e di qualità, al di là della loro provenienza.
Probabilmente lo scopo oggi è ben diverso.
Per guardare bene la situazione italiana, bisogna innanzitutto precisare alcuni passaggi.
Prima di parlare di tetto massimo per gli alunni stranieri, servirebbe lo “ius scholae”.
Salvini e Valditara ritornano a parlare di un tetto per gli alunni stranieri, dimenticando però di precisare che gli alunni con cittadinanza non italiana superano il 30% degli alunni iscritti solo nel 6,8% delle classi. Ma se da questo conteggio togliessimo quelli nati in Italia, si scenderebbe allo 0,5%.
La presenza di alunni e alunne “stranieri” nelle scuole italiane è una realtà da anni.
Sono infatti più di 870 mila gli studenti e studentesse con cittadinanza non italiana che lo scorso anno frequentavano le nostre scuole, 7 su 10 nati in Italia. Quindi “italiani” di fatto ma non di diritto.
Sono anni ed anni che in Italia si aspetta la riforma della legge che riconosca piena cittadinanza ai bambini e alle bambine che nascono o giungono da piccoli nel nostro Paese.
Stiamo parlando di Ius soli, ius scholae, ius culturae, che sono le diverse proposte di legge presentate negli ultimi anni in Parlamento, ma che ad oggi non hanno mai portato ad vera riforma.
Giusto chiarire i diversi tipi di ius e come viene acquisita la cittadinanza in Italia.
Lo ius soli (dal latino “diritto del suolo”) prevede che la cittadinanza sia acquisita per il fatto di essere nati sul territorio dello stato. La cittadinanza, quindi, è legata al luogo di nascita. In Italia lo ius soli viene concesso solo in casi eccezionali: per i figli di genitori ignoti, per i figli di genitori apolidi (senza cittadinanza) e per i figli di genitori stranieri che, secondo le leggi dello Stato di appartenenza, non possono trasmettere loro la cittadinanza.
Lo ius sanguinis prevede che la cittadinanza sia acquisita per discendenza o filiazione. In Italia, si ottiene la cittadinanza tramite questo principio, regolamentato dalla Legge 91 del 1992. Una legge vecchia trent’anni. Pertanto, il figlio di genitore straniero, anche se nato in Italia, non acquisisce automaticamente la cittadinanza italiana.
Per chi è arrivato in Italia anche da molto piccolo, invece, vige il principio della naturalizzazione: una volta diventato maggiorenne, il cittadino straniero può chiedere la cittadinanza se ha raggiunto i dieci anni di residenza regolare ininterrotta. Tale procedimento in Italia ha però un iter complesso, costoso e lungo e non tutti riescono a completarlo.
Lo ius scholae stabilisce che per l’acquisizione della cittadinanza, vi sia il compimento di un ciclo di studi.
La riforma della legge sulla cittadinanza a marzo 2018 si bloccò a giugno 2022, causa un cambio di Governo, prevedeva il riconoscimento della cittadinanza italiana per i minorenni stranieri nati in Italia o arrivati prima del compimento dei 12 anni che abbiano risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia, e che abbiano frequentato regolarmente almeno 5 anni di studio nel nostro Paese, in uno o più cicli scolastici. Nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è necessario il superamento del ciclo di studi con esito positivo.
Diverso è il cd. ius culturae, che nella proposta di legge sulla cittadinanza ddl. S. 2092 approvata dalla Camera nell’ottobre del 2015, fermatasi al Senato nel 2017, prevedeva l’ottenimento della cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia, o entrati entro il 12esimo anno di età, che avessero “frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli presso istituti scolastici del sistema nazionale, o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali”, conclusi con la promozione. Nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è altresì necessario il superamento del ciclo di studi con esito positivo.
“Ius Soli” condizionato: perché lo chiediamo
E’ giunto il momento che il Parlamento si attivi per una riforma della legge sulla cittadinanza, adeguandosi ai tempi e che guardi al futuro, visto anche la denatalità, senza retro pensieri o altro.
La politica intervenga evitando stupidi discorsi sulla mantenimento della razza o facendo altri ragionamenti che ricordano forme di “separazione” o “esclusione”, che, oltre a ricordare periodi bui della storia del secolo scorso, non sono degne di un paese democratico. Ad Maiora