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Sanremo 2024: la “Trasgressione autorizzata” del gender fluid

Fiorella Falci

Sanremo 2024: la “Trasgressione autorizzata” del gender fluid

Ven, 09/02/2024 - 19:34

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Al Festival di Sanremo la maggioranza dei giovani artisti in gara esibisce un abbigliamento “gender fluid”, che sembra ormai accreditato come un connotato identitario delle giovani generazioni maschili, consacrato dal palcoscenico dell’Ariston che da sempre ha rappresentato il massimo livello di spettacolarizzazione della realtà comune nel nostro Paese. Non altrettanto si può dire delle giovani artiste: originali o ricercatamente stravaganti, non inseguono mimetizzazioni con l’immagine maschile, consapevoli, forse, dell’egemonia che sul piano dell’immagine la seduzione femminile sembra avere imposto. Nessuno si stupisce più di tanto, né tantomeno i vertici RAI, pur in un’epoca destro-conservatrice, eccepiscono alcunché sul piano dell’esemplarità che si offre alle giovani generazioni. In altri tempi, musicisti di valore come Umberto Bindi venivano eliminati da tutti i circuiti mediatici per le dicerie di omosessualità sul loro conto, nonostante il look rigorosamente conformista con cui tentavano di evitare il coming-out, o si censuravano i testi delle canzoni (come in 4 marzo 1943 di Lucio Dalla). Sembrerebbe oggi una “trasgressione autorizzata”, un feticcio di modernità da somministrare alle giovani generazioni per disinnescarne spinte di contestazione più autentica dell’ordine simbolico costituito, dei poteri, espliciti e occulti, che comandano nel nostro mondo.

Affidare prevalentemente all’immagine l’espressione della propria identità può significare rinunciare alla parola, qualità identificativa della specie umana, semplificare i significati, ridurre il pensiero nell’involucro patinato del segno unico, tipicizzante, nuovo stereotipo della post-modernità. Secondo me non si è riflettuto e discusso abbastanza, al di là delle note di costume, sul segno che queste mutazioni stanno incidendo nell’immaginario collettivo e nell’antropologia che sostanzia la nostra società. Non ci si chiede se questa omologazione maschile all’immagine di bellezza femminile segnali una fase di progresso, di superamento degli stereotipi secolari, o non sia piuttosto una evasione gentile e/o furbesca dalla responsabilità della propria identità, a cominciare da quella di genere. Nei secoli passati si sono presentati fenomeni analoghi, anche se di portata meno invasiva, dai nei, dalla cipria e gli orecchini dei libertini del ‘700 ai “capelloni” degli anni ’60, quando portare i capelli lunghi aveva un preciso segno di contestazione degli stereotipi “machisti” venati di militarismo ancora presenti nella società occidentale del dopoguerra.

Oggi però l’omologazione femminilizzante non sembra avere intenzioni alternative, se non sul piano, tutto barocco, del provocare la “meraviglia” del pubblico e sostenere con gli effetti speciali del look fragilità musicali, culturali, identitarie, o, al meglio, riconoscere alla fenomenologia femminile un primato di bellezza, grazia, non violenza, che si vuole condividere. Ma questo avviene in anni in cui l’escalation dei femminicidi continua ad esplodere, connotata fortemente da una rabbiosa perdita di potere sui corpi e sulle scelte delle donne da parte dei loro assassini, quasi sempre legati da relazioni di possesso che non riescono a generare amore autentico e rispetto per la libertà della partner. La strada della mimetizzazione delle differenze, proiettata sui maxi-schermi della spettacolarizzazione, vuole essere un antidoto, o non è piuttosto una rinuncia a superare gli stereotipi di genere costruendo un sistema alternativo di relazioni tra i sessi, nutrito di riconoscimento delle reciproche parzialità, e quindi di rispetto, di interdipendenza senza sopraffazione possessiva, di democrazia nelle relazioni umane?Se diamo per scontate tutte le mutazioni che il circo mediatico ciclicamente accredita, senza leggerle in profondità, senza discuterne il senso, senza consapevolezza piena dei loro significati, penso che perderemo totalmente il controllo sui nostri stili di vita e sull’idea di società in cui ci ritroviamo a vivere, oggetti e non soggetti delle dinamiche di consumo e di mercato che producono l’immaginario collettivo e se ne servono per gestire la propria egemonia con il consenso inconsapevole dei “consumatori-consumati”…