Tre centimetri. Alfredo Caputo (nel riquadro della foto in alto) è vivo per miracolo. Se l’aggressore del medico dell’ospedale Cervello di Palermo avesse colpito tre centimetri più in basso avrebbe reciso la carotide e per il primario di Endocrinologia oncologica non ci sarebbe stato nulla da fare.
Dalla sedia accanto al letto del reparto di Chirurgia plastica di Villa Sofia, Caputo racconta la paura di un minuto di follia. È piuttosto malconcio nel fisico, le ferite sono evidenti. Ma la sua determinazione non è stata scalfita: «Voglio tornare a lavorare, altrimenti mi ammalo veramente», sorride mentre muove nervosamente la gamba destra. Subito ripreso, però, dalla figlia, medico come lui, al suo fianco in questo momento difficile: «Prima devi guarire completamente».
Interrotto dalle tante telefonate che gli esprimono vicinanza, con la memoria il medico ritorna a quel mercoledì pomeriggio da brivido. «Sono arrivato in sala medici per parlare con una paziente che aveva bisogno di me. Ero girato verso il pc e improvvisamente alle mie spalle è arrivata questa furia». Un paziente si è scagliato contro Caputo, lasciandolo per terra in un bagno di sangue. «Tutto è avvenuto in meno di un minuto, non ho avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo. Ho cercato di proteggermi – prosegue il medico – infatti, mi ha tranciato i tendini dell’avambraccio, poi l’orecchio, mi ha fratturato lo zigomo, è persino arrivato alle ghiandole salivari». Una furia inarrestabile. «Nonostante tutto sono riuscito a riconoscere il paziente che avevo visto due volte, ho cercato di rincorrerlo ma ero in un lago di sangue. Ho chiesto aiuto, non potevo muovermi».
L’uomo, dopo la feroce spedizione punitiva, si è dato alla fuga. Ora è ricercato dalla polizia, si tratterebbe di un pregiudicato. E il suo atteggiamento aggressivo si era manifestato, almeno solo verbalmente, già altre volte tant’è che il primario non lo aveva mai visitato da solo. Ma cos’ha scatenato questa furia cieca? «La prima volta – racconta – era venuto con la prescrizione di un farmaco fatta da Milano da un collega e feci di tutto per farglielo avere. Poi il paziente si era presentato con una seconda prescrizione che prevedeva l’aumento della posologia. Ma quando faccio un piano terapeutico mi assumo io la responsabilità di quello che prescrivo. Quindi gli ho proposto un day hospital, un setting migliore per fare gli esami, per verificare la terapia. Parliamo di un farmaco che ha importanti effetti collaterali». L’uomo, però, non l’aveva presa bene.
Passano diversi giorni. Caputo viene addirittura contattato telefonicamente dal padre del paziente che gli intima di prescrivere il farmaco. Poi si arriva a mercoledì. L’uomo avrebbe premeditato la vendetta, infatti all’ospedale si era presentato armato non di un tirapugni – come si è detto all’inizio – ma da un’arma da taglio. «Non è venuto per una visita, non era prevista, ma si è presentato con l’obiettivo di aggredirmi». Forse di ucciderlo, perché se avesse colpito tre centimetri più in basso Caputo sarebbe morto. «Mi sento miracolato, sto vivendo un episodio che mi sta sembrando un film, è incredibile», ammette sospirando.
Caputo è solo l’ultima vittima in ordine di tempo di una lunga serie di raid ai danni del personale sanitario dei nosocomi cittadini. «Abbiamo il diritto di lavorare sentendoci sicuri. Dobbiamo ripristinare quel rapporto di fiducia medico-paziente che negli anni, per una questione anche culturale, per le carenze strutturali, per la situazione difficile in cui spesso ci troviamo a lavorare, è venuto meno», conclude col pensiero, però, sempre rivolto ai suoi pazienti: «Non vedo l’ora di tornare». (Giorgio Mannino, gds.it)