È nel tentativo di scrollarsi di dosso «il fine pena mai» che tre boss sono tornati alla sbarra. Con loro anche un presunto “fedele” condannato a trent’anni. Devono rispondere di un omicidio, per l’accusa scattato in ambienti di mafia, consumato trentacinque anni addietro. Sì, perché era il 9 ottobre del lontano 1988 quando i killer hanno ucciso a colpi di pistola il barista gelese Giuseppe Failla. I suoi familiari (assistiti dall’avvocato Giovanni Bruscia) sono parti civili.
Per questo agguato mortale sono stati già condannati all’ergastolo, in primo grado, il boss di Vallelunga, Giuseppe «Piddu» Madonia, l’ex capo della famiglia di Cosa nostra a Caltanissetta, Angelo Palermo e il boss sancataldese Cataldo Terminio. Mentre è di 30 anni la condanna che è stata comminata al gelese Angelo Bruno Greco. I quattro (assistiti dagli avvocati Sergio Iacona, Flavio Sinatra, Cristina Alfieri, Giuseppe Piazza ed Eliana Zecca) sono ora sotto processo dinanzi la corte d’Assise d’Appello presieduta da Andreina Occhipinti (consigliere Gabriella Natale).
Ognuno di loro avrebbe rivestito un ruolo ben preciso tra regia – ricondotta a Terminio per vendicare l’uccisione del padre Nicolò, così come a lui è attribuita l’esecuzione del delitto – fiancheggiatori – come lo sarebbero stati Palermo nelle veste di autista e Greco di basista – e chi, invece, in questo caso Madonia, avrebbe fornito il benestare alla missione di morte per il suo ruolo verticistico in Cosa nostra. Come dire, per l’accusa, non si sarebbe mossa foglia senza il suo benestare.
E il boss sancataldese Cataldo Terminio – che per l’accusa avrebbe materialmente fatto fuoco contro il barista uccidendolo dietro il bancone – tirandosi fuori da questa vicenda, attraverso una deposizione fiume ha sostenuto che l’ex pentito storico nisseno di Cosa nostra, «Nardo» Messina, lo avrebbero chiamato in causa perché i loro rapporti sarebbero stati sempre pessimi. Così come non buoni lo sarebbero stati tra lui e l’ex boss vallelunghese, Ciro Vara.