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Le zolfare raccontate in “Vitti ‘na crozza”: nella canzone siciliana la triste storia dei minatori

Redazione 3

Le zolfare raccontate in “Vitti ‘na crozza”: nella canzone siciliana la triste storia dei minatori

Dom, 12/11/2023 - 00:53

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In occasione del 140 anniversario dell’esplosione della miniera di Gessolungo e della morte di 65 minatori di cui 19 “carusi”, nel 2021, l’allora Presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci ha istituito la “Giornata in memoria delle vittime nelle miniere”. Una scelta che si deve considerare come un “bisogno di riscatto”. Si calcola, infatti, che dall’Unità d’Italia agli anni Sessanta del secolo scorso siano stati circa 350 i siciliani morti all’interno delle miniere dell’Isola.

Il presidente della Regione ha ribadito che «il provvedimento ha lo scopo di conservare e rinnovare la memoria di tutti quei siciliani, ovunque nel mondo, deceduti tragicamente all’interno di miniere, in disumane condizioni di sfruttamento e senza alcuna tutela. Erano soprattutto carusi, ai quali era stato espropriato il diritto alla dignità umana, nella indifferenza – se non nella complicità – dei governanti del tempo.

Una pagina vergognosa – commenta ancora Musumeci – alla quale possiamo porre parziale riparo solo con il ricordo e la preghiera. Sono certo che il parlamento siciliano vorrà condividere unanimemente la proposta del governo».

Non tutti, però, sanno che la tragedia delle miniere è stata narrata in una tra le più celebri canzoni della tradizione siciliana “Vitti ‘na crozza”.

Il testo è molto noto: Vitti na crozza supra nu cannuni, fui curiusu e ci vosi spiari. Idda m’arrispunnìu cu gran duluri: murivi senza toccu di campani. Si nni jeru, si nni jeru li mè anni, si nni jeru, si nni jeru e un sacciu unni.

Il vero significato delle parole, infatti, riporta al mondo delle zolfare, fatto di faticosissimo lavoro e di sofferenza e lo spiega Sara Favarò in Storia di vitti ‘na crozza.

Una canzone che ci ricorda la sofferenza e anche l’ingiustizia di chi passava la maggior parte della propria vita nelle miniere di zolfo della vecchia Sicilia e se aveva la sventura di morire tra le viscere della terra lì restava, sepolto senza nemmeno “un toccu ‘ri campane”.

Protagonista della canzone è ’na crozza, ossia un teschio. Un teschio che, attraverso il suo racconto, si fa promotore di una forte denuncia sociale, rivolta principalmente contro determinate usanze della Chiesa cattolica di un tempo.

La maggior parte delle persone ha sempre ritenuto che il famoso ‘cannuni’ dove si trova il teschio, protagonista della canzone, fosse il pezzo di artiglieria cilindrico utilizzato per fini bellici, e che la canzone si riferisca ad un evento di guerra.

Ma così non è; Il “cannuni” altro non era che il boccaporto delle miniere.

Il testo ripercorre l’ostracismo perpetrato dalla Chiesa, incredibilmente cessato solo verso il 1940, nei confronti dei minatori morti nelle solfatare. I loro resti mortali non solo spesso rimanevano sepolti per sempre nella oscurità perenne delle miniere, ma per loro erano precluse onoranze funebri e perfino, insiste la voce del teschio, un semplice rintocco di campana, perché zolfo e sottosuolo erano simboli e dimora del demonio.

La voce del teschio implora che qualcuno riservi anche a lui questa pietas, affinché una degna sepoltura, accompagnata da un’onoranza funebre che lo possa degnamente accompagnare nell’aldilà sia in grado di riscattare i suoi peccati e garantirgli una pace eterna dopo un’esistenza di stenti, contrassegnata da un lavoro massacrante in un’oscurità permanente”.

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