“Il pugilato è morto. Quello mio, almeno. Oggi nessuno vuole più fare sacrifici, non c’è più rispetto per la fatica e il lavoro degli altri. Io insegno gratis la boxe ai ragazzini, provo a inculcare i valori che vennero trasmessi a me, ma quasi tutti pensano solo al telefonino”, “la vera boxe non esiste più. Ma vi ricordate chi c’era in Italia ai tempi miei? I fratelli Stecca, Oliva, Damiani. E nel mondo, nella mia categoria dei welter? Ray Sugar Leonard, Thomas Hearns, Roberto Duran, Wilfredo Benitez che diventò campione del mondo a 17 anni. Capite perché non mi diverte più?”.
Così, in una intervista a La Gazzetta dello Sport, Nino La Rocca, il “Muhammad Ali italiano” come lo definirono negli Stati Uniti, che oggi vive a Ostia e “resta un simbolo vivido nell’immaginario collettivo: nel 2021 il cantautore romano Bruno Maccarri gli ha dedicato una delle sue composizioni più celebri e a novembre, sulla Rai, verrà trasmesso un documentario sulla sua vita”. Figlio di un paracadutista maliano dell’Esercito coloniale francese praticamente mai conosciuto, e di una donna siciliana di Resuttano (Caltanissetta), attraverso il pugilato ha riscattato una giovinezza di enormi stenti e povertà estrema vissuta tra il Marocco e la Francia, dove gli davano 5 franchi per fare da sparring a quelli più grandi. Fino a trovare nell’Italia (e nel maestro Rocco Agostino) la terra promessa che gli ha permesso di accendere la miccia di un talento certamente istrionico, ma comunque in grado di portarlo, nei pesi welter, a una sfida mondiale e al titolo europeo.
“Gli italiani non dovrebbero dimenticare che i primi emigranti furono loro” ricorda. Nino (il nome italiano lo mutuò da quello dello zio materno con cui imparò a tirare di boxe), a ogni modo, è stato uno degli sportivi più popolari degli anni 80 e tra i protagonisti assoluti dell’ultima età dell’oro del nostro pugilato: per questo un velo di tristezza gli incrina la voce quando si ritrova a commentare la nobile arte di questi tempi. Molti continuano a sostenere che gran parte della sua carriera fu pilotata con match accomodanti…. “Una grossa stupidaggine: non disputi 80 incontri e ne vinci 74 se sei scarso. Ho combattuto a Las Vegas, al Madison Square Garden, ho battuto avversari che avevano sconfitto campioni del mondo. Se mi avessero proposto 40 match in America, sarei andato là senza battere ciglio.
Il problema è che quando vinci e diventi troppo popolare solo grazie ai tuoi meriti, tanta gente comincia a malignare”. Ha smesso a 31 anni… “Non ho smesso. Mi ha fatto smettere la politica. Ero troppo scomodo”, “ero diretto, non avevo bisogno di intermediari politici e dicevo le cose come stavano. Ovvio che davo fastidio. Ogni volta riempivo i palazzetti, la gente si divertiva e mi amava: qualcuno non me lo ha perdonato”.
C’è chi, però, crede ancora in questo sport e ha scelto di aprire una palestra di pugilato proprio a Caltanissetta, Provincia di origine della madre di Nino La Rocca. Andrea Giardina, con la sua palestra federale, sogna di portare in città grandi eventi e veicolare, attraverso la boxe, devi valori positivi per le giovani generazioni.