A maggio e a settembre Caltanissetta celebra San Michele, il Patrono della città che ha concesso tanti miracoli ai suoi abitanti.
Se in molti sanno che l’arcangelo ha impedito l’ingresso di un appestato nel centro abitato, salvando di fatto tutte le persone dal rischio di un’epidemia, non tutti conoscono la storia di Fra’ Francesco Giarratana e del suo incontro con San Michele.
Fra’ Francesco, al secolo Vincenzo Giarratana, nacque a Caltanissetta il 4 dicembre 1570 da Francesco e Laura Grassotto: fece la vestizione nell’Ordine Cappuccino nel 1588 e morì a 75 anni nel convento nisseno il 4 dicembre 1645.
Frate Luigi scriveva che era stata fatta istanza al Padre Guardiano «che voglia mettere quel santo corpo di Fr. Francesco di Caltanissetta in loco separato, perché siccome in vita ha fatto diversi miracoli, così speramo che li farà dopo morto».
Una vita all’insegna dei miracoli, dunque, quella del frate nisseno, stante quanto tramandato dai suoi confratelli.
Quello più noto rimane l’apparizione di San Michele.
Era il 1625 e la peste continuava a mietere vittime in tutta l’Europa. Anche in Sicilia la terribile piaga aveva preso piede e l’unico modo per impedire il contagio era, oltre che appellarsi alla clemenza divina con preghiere e processioni di penitenza, quello di proibire l’entrata nelle città ai poveri appestati, a costo anche di privarli della loro vita.
Ma l’8 Maggio di quell’anno, come sembra essere riportato anche nelle “Notizie cronologiche spettanti al convento dei Cappuccini di Caltanissetta”, ad impedire l’ingresso in città di un appestato non fu un uomo qualunque, ma l’Arcangelo Michele. Fu il frate Francesco Giarratana a vedere per primo il santo con la spada sguainata sulla porta della città (detta dei Cappuccini, costruita appositamente per controllare l’accesso alla città) che cacciava l’uomo e lo confinava a morire in una grotta nel luogo detto “Calcare”, in contrada Sallemi. I religiosi richiamati dalle grida del frate videro, o credettero di vedere anch’essi, la figura di un militare con la spada che cacciava via un appestato. Poco dopo apparve allo stesso frate l’Arcangelo in persona che rivelò in modo più distinto l’avvenuto miracolo e quindi la salvaguardia di Caltanissetta dalla peste. San Michele impose quindi al frate di riferire il tutto al Magistrato della città e all’Arciprete in modo tale che da quel momento in poi fosse riconosciuto come protettore di Caltanissetta. A riprova dell’avvenuto miracolo avrebbero inoltre dovuto recarsi nella grotta insieme ai giurati per verificare con i loro occhi la presenza dell’appestato ormai deceduto.
Proprio sul sito di quella grotta fu quindi eretta una piccola chiesa in onore dell’Arcangelo
Michele. Ma il fervore per il santo man mano venne meno e la piccola chiesetta cominciò ad essere abbandonata fino a quanto non ne crollò addirittura il tetto. Ma un’altra terribile piaga rinvigorì la devozione dei nisseni per il santo, quando il colera che nel 1837 decimò la Sicilia intera risparmiando la città di Caltanissetta. I cittadini intravidero in questo nuovo miracolo la mano santa del loro patrono, e per questo vi fu una pregevole gara a riedificare la chiesetta con l’offerta di beni e lavoro manuale da parte di tutti coloro che vollero gratificare il santo. La chiesa fu ricostruita così come la si conosce oggi, con la sua facciata di pietra di Sabucina a rendere omaggio al patrono della città.
Per venerare il santo fu costruita una statua in legno dallo scultore Stefano Li Volsi (di Nicosia), tutt’oggi esistente e collocata alla destra
dell’altare maggiore della chiesa madre. “La leggenda narra dei problemi legati alla fattura della testa, che l’artista – nell’impossibilità di saperla realizzare con le dovute caratteristiche soprannaturali – dopo le sue preghiere avrebbe addirittura trovato già bell’e fatta «ad opera degli angeli”. L’8 maggio di ogni anno, a memoria del miracolo che liberò Caltanissetta dalla peste, viene portata in processione la statua per le vie della città dalla chiesa madre fino alla chiesa di San Michele, dove permane per più di una settimana. Il santo viene inoltre celebrato il 29 settembre di ogni anno, giorno in cui Caltanissetta si ferma per glorificare il suo santo patrono. In concomitanza dei festeggiamenti, che durano un’intera settimana fra feste e processioni, ha luogo la tradizionale fiera di San Michele che però non affonda le sue radici ai primi del 1600, anno dell’apparizione del santo, ma bensì fin dal 1550, quando la fiera che si svolgeva sin dal medioevo alla fine di settembre prima della nuova aratura, prese proprio il nome del santo.
Ma cos’altro fece di straordinario il frate durante la sua esistenza? Seguiamo sempre i documenti riproposti da Mendolia Calella.
Da testimonianze conservate nell’Archivio provinciale della Curia dei Cappuccini di Bologna si apprende che nel 1611 fra’ Francesco, in viaggio da Cammarata a Caltanissetta, incontrò un pover’uomo che aveva una bestia gravemente ferita, con i visceri di fuori: al che il frate la guarì applicandole al ventre la reliquia di San Felice da Cantalice.
Un altro episodio miracoloso era accaduto nel 1586, quando l’allora giovane Vincenzo si era recato a Monreale per chiedere l’obbedienza di entrare nell’Ordine Cappuccino. In viaggio su un carro di buoi, il futuro frate venne colpito ad un occhio dal corno di uno degli animali, rimanendo ferito in modo tale da non poter più condurre il carro che ad un tratto, privo di guida, cadde in un precipizio con tutti i buoi. Lui ne uscì praticamente illeso e dopo pochi giorni anche l’occhio guarì miracolosamente.
Nel 1605, sulla strada da Girgenti a Racalmuto, fra’ Francesco e il confratello p. Giammaria da Caltanissetta furono chiamati in casa da un ammalato che per i forti dolori si contorceva nel letto e che si raccomandò alle preghiere dei due frati. Questi gli impartirono la loro benedizione e, tornati in convento, pregarono per l’uomo il quale, l’indomani, si presentò loro perfettamente guarito.
Ma uno dei “miracoli” che ha contribuito anch’esso a creare un alone di santità attorno al religioso nisseno è quello tramandato dal cronista cappuccino p. Pellegrino da Forlì che negli Annali dell’Ordine riferisce un episodio con protagonista fra’ Francesco in giro per la questua: «Una lionessa, sprigionatasi dal serraglio del Duca di Montalto, entrò furibonda e minacciosa nella città di Caltanissetta, percorse alcune vie e giunse nel mezzo della piazza, ruggendo e girando gli occhi furibondi e sanguigni (…). I cittadini, impauriti all’ingresso di quell’ospite malaugurato e terribile, si chiusero nelle loro case (…). E mentre essi guardavano dalle finestre, ecco comparire in quella piazza deserta un Cappuccino. Era fra’ Francesco…». Accortosi del felino, ecco dunque il nuovo “miracolo” del frate secondo questa narrazione: «Come dunque la vide, con passo franco e disinvolto si mosse verso di essa, chiamandola in nome di Dio. La lionessa a quell’invito autorevole abbassò il capo superbo, addolcì l’occhio feroce e si accostò ai piedi di lui, quasi lambendoli per rispetto. Allora fra’ Francesco sgridandola dolcemente (…) le annodò al collo il suo cingolo; e così tenendola per mano la rimenò docile al suo serraglio. Tutti, trepidando osservarono il miracoloso spettacolo; e il Duca stesso che dal balcone del suo palazzo adocchiava quel fatto, esultava in cuor suo, giudicandolo un prodigio».
A conferma della veridicità di tale fatto c’è anche un riscontro nel manoscritto delle monache Benedettine di Santa Croce (citato dallo storiografo della chiesa nissena Francesco Pulci), anche se non viene citato l’anno.
Il saggio di Mendolia Calella prosegue con altre testimonianze riferite a fra’ Francesco impegnato nell’assistenza ai malati di peste a Palermo dove il morbo era scoppiato nel 1624. Si prosegue, poi, col riferimento all’apparizione nello stesso anno di San Michele a Licata sempre al cospetto del frate nisseno.
Questi, come detto, si spense nel 1645: «Il suo cadavere – scrisse il p. Pellegrino da Forlì – esposto al pubblico fu oggetto di grande venerazione; e chi tagliava l’abito e chi un pezzo di fune, chi i capelli e di altre cose che fossero attorno alla bara, per averne una memoria».
Il suo bastone, nei secoli successivi, sarebbe stato usato come oggetto taumaturgico e portato in giro tra gli infermi per invocarne la guarigione.
Fonte: https://laviadeifrati.wordpress.com/2016/07/15/i-frati-della-via/