La Corte d’Appello di Catania ha assolto l’ex sindaco di Serradifalco Giuseppe Maria Dacquì dal reato di diffamazione aggravata “perché il fatto non sussiste”. Dacquì era stato querelato da Pasquale Bellanca per avere bollato come “razzismo strisciante” la battaglia portata avanti da un compitato spontaneo (di cui lo stesso Bellanca si era autoproclamato portavoce) contro l’accoglienza in paese di venticinque migranti.
Il collegio etneo ha accolto i motivi presentati dall’avv. Antonino Falzone e ha revocato le statuizioni civili, rigettando l’appello della parte civile che chiedeva il riconoscimento di “una provvisionale”.
La vicenda risale al 2013 quando, per far fronte alla cosiddetta “emergenza migranti”, il Ministero dell’Interno dispone un ricollocamento forzato degli extracomunitari in ogni città del territorio nazionale. A Serradifalco l’amministrazione guidata dal sindaco Dacquì presenta un progetto SPRAR per l’accoglienza dei rifugiati. Ma l’iniziativa incontra subito la resistenza di un gruppo di cittadini. Nasce un comitato contrario all’accoglienza, composto da diversi residenti della via del centro storico di Serradifalco dove i migranti sarebbero stati ospitati. Pur senza essere formalmente costituito, il comitato inizia una violenta campagna di comunicazione contro l’allora sindaco Dacquì. “Non ci sentiamo rassicurati – si legge in uno degli articoli apparsi in quel periodo – in termini di garanzia e sicurezza dall’estrazione sociale e dal titolo di studio dei rifugiati… I peggiori terroristi sono quasi tutti laureati come Bin Laden e i terroristi della strage dell’undici settembre”.
Nel corso di un incontro con la giunta comunale, uno dei componenti del comitato afferma: “Non li vogliamo, sono neri e sporchi peggio degli animali”. In un altro incontro – avvenuto a Palazzo Mifsud alla presenza del Prefetto – una componente del comitato si rivolge a una concittadina in dialetto: “Visto che ti piacciono i negri, coricateli a casa tua”. In un’altra occasione la moglie di un iscritto al comitato esplode: “Non sarei più padrona di mettermi in grembiule perché potrebbero violentarmi”. E infine il figlio di un componente del comitato: “Sarebbero sempre seduti ubriachi negli scalini e non potrei tornare a casa senza essere ‘nquietatu’”.
A quel punto il sindaco Dacquì replica sulla stampa affermando che “quella del comitato sarebbe una guerra alle intenzioni. Per definire la quale ci sarebbe solo un termine: razzismo”. E in altro articolo precisa che si tratterebbe di “razzismo strisciante”.
Di qui la denuncia per diffamazione a mezzo stampa presentata da Pasquale Bellanca, ritenutosi ferito nell’onore dalle esternazioni del sindaco.
“Sostenere che Dacquì avesse voluto offendere il Bellanca non è affatto possibile” scrive la Corte d’Appello di Catania. E ancora: le frasi pronunciate dall’ex sindaco “non erano dirette a Bellanca” e, in ogni caso, “costituiscono un legittimo esercizio del diritto di manifestazione del pensiero e del diritto di critica”.
I giudici hanno inoltre precisato che Dacquì va assolto con la più ampia formula assolutoria anche perché le frasi utilizzate dai componenti del comitato spontaneo “costituiscono espressioni infelici e pregiudizi non fondati su elementi concreti e possono essere interpretati come manifestazioni di un pensiero discriminatorio a sfondo razziale, che poteva essere legittimamente denunciato all’opinione pubblica come tale”. La Corte ha infine stigmatizzato le dichiarazioni di un giornalista, teste della parte civile, qualificandole “al limite della reticenza, incredibile per un cronista”.
Così l’avv. Antonino Falzone, difensore dell’ex sindaco: “Siamo molto soddisfatti per l’esito del giudizio d’appello. La Corte ha accolto integralmente la tesi prospettata dalla difesa e ha riconosciuto la legittimità delle espressioni pronunciate in ossequio al principio della libertà di manifestazione del pensiero previsto dall’art. 21 della Costituzione”.
In primo grado era già stato assolto l’autore dell’articolo incriminato, il giornalista del Giornale di Sicilia Salvatore Benfante (difeso dall’avvocato Maria Giambra) per esercizio del diritto di cronaca.