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Caponnetto, la forza mite che inchiodò la mafia

Redazione

Caponnetto, la forza mite che inchiodò la mafia

Mar, 21/03/2023 - 16:05

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Maniere miti e la forza di un’integrita’ votata alla legge, Antonino Caponnetto arrivo’ nel novembre del 1983 da capo dell’Ufficio Istruzione in una Palermo segnata dalla fresca cicatrice di via Pipitone Federico, devastata dal tritolo della mafia che pochi mesi prima , il 29 luglio, aveva ucciso il giudice Rocco Chinnici, i due carabinieri della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il custode del condominio dove abitava il magistrato, Stefano Li Sacchi. 

Chinnici era stato il padre del pool antimafia, e Caponnetto raccolse quella creatura dalle macerie dell’attentato, la fece crescere, la guido’ nel titanico percorso del maxiprocesso, che porto’ alla sbarra oltre 400 tra padrini e soldati di Cosa Nostra. Nel pool chiamo’ Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, e coordinano’ il loro lavoro certosino e infaticabile di paziente costruzione giudiziaria. Una battaglia contro i boss combattuta con le armi della legalita’ e della giustizia, fino alla vittoria processuale dello Stato. 

Un cammino irto di ostacoli e di insidie, in un terreno che era allora inesplorato, quello della gestione dei pentiti di mafia, a cominciare da Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, cui molti altri seguirono in corso d’opera.

Nel 1990, quando Caponnettolascio’ Palermo, il paesaggio urbano era molto diverso da quello di sette anni prima, in faccia al porto c’era, e c’e’, l’aula bunker dove sui mafiosi in gabbia si abbatte’ una grandinata di ergastoli e secoli di carcere. 

Il giudice mite e forte rientro’ a Firenze, sua citta’ d’adozione (ma era nato in Sicilia, a Caltanissetta), ma a Palermo dovette tornare affranto dal dolore, per i funerali di Giovanni Falcone prima e di Paolo Borsellino poi. Disse allora davanti alle telecamere una frase che nessuno avrebbe dimenticato: “E’ finito tutto”. Parole dettate, come spiego’ lo stesso magistrato anni dopo, “dallo sgomento e dallo sconforto”. 

Se ne scuso’, con la sua forte mitezza: “In quel momento avrei dovuto – avevo l’obbligo, forse, e avrei dovuto sentirlo quest’obbligo – di raccogliere la fiaccola che era caduta dalle mani di Paolo e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. E invece furono i giovani di Palermo a dare coraggio a me, che trovai dopo pochi minuti in piazza del tribunale. Mi si strinsero attorno con rabbia, con dolore, con determinazione, con fiducia, con speranza. E allora capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole e quanto bisognava che io operassi per farmele perdonare: operassi per continuare l’opera di Giovanni e Paolo”.

E lo fece. Per anni, fino alla sua scomparsa nel 2002, come un pellegrino della legalita’ visito’ centinaia di scuole in tutta Italia per raccontare ai giovani di Falcone e Borsellino e della lotta contro la mafia, in un’opera incessante di insegnamento dell’etica civile. Etica che pratico’ anche da presidente del Consiglio comunale di Palermo, carica che assunse nel 1993 dopo essere stato eletto alle elezioni amministrative nelle liste della Rete, il movimento fondato da Leoluca Orlando.

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