Inclusione, accoglienza e solidarietà sono dei concetti molto utilizzati nei discorsi teorici e nei proclami pubblici ma che, purtroppo, a Caltanissetta non sempre trovano concretezza nella vita quotidiana.
Lo sanno bene la mamma e il papà di un bambino di 11 anni, Lelia ed Enzo, che si sono trovati a bussare alla porta di tante associazioni e società sportive senza, però, trovare qualcuno disposto a concretizzare l’iscrizione per il proprio figlio.
Il motivo è
semplice: nel 2023 la disabilità ancora fa paura e non esiste personale
sufficientemente preparato a gestire la “diversità”. Una preparazione che,
purtroppo, non sempre è legata a capacità “professionali” funzionali allo
svolgimento dell’attività sportiva bensì competenze “emotive ed empatiche”.
“Nostro figlio ha la sindrome di Down, un’informazione che già i medici ci avevano comunicato al secondo mese di gravidanza. Abbiamo capito subito che ci era stato affidato un compito importante, quello di aiutare nostro figlio ad avere una vita simile a quella vissuta da tutti gli altri bambini. Dal momento in cui è nato, io e mio marito abbiamo cercato di fare di tutto perché lui potesse avere gli stimoli necessari per poterlo rendere, un domani, il più autonomo possibile”.
Luca – così lo chiameremo usando un nome di fantasia – non si discosta molto dai suoi coetanei perché, chi lo conosce, nota immediatamente che è un bambino pieno di vita, di amore, di gioia, di energia, di voglia di socializzare. Lui ama stare in compagnia, soprattutto di altri bambini. Ha una vitalità superiore alla norma e, quindi, ha bisogno di attività che lo aiutino a scaricare questa sua incredibile energia.
I genitori di Luca non hanno perso tempo e si sono guardati intorno con attenzione selezionando ciò che offriva il territorio compatibilmente con i gusti e i desideri del loro figlio.
“Già all’età di 6 anni frequentava una scuola di ballo, poi abbiamo provato con la palestra e, infine, con la piscina comunale. Quest’ultima era l’attività sportiva più completa e adatta a soddisfare tutte le nostre necessità. Nostro figlio era felicissimo, lui ama molto l’acqua e il nuoto era lo sport ideale per fargli scaricare tutte le energie accumulate durante la giornata”.
Ma da quattro anni la piscina è chiusa e Luca si trova chiuso a casa senza poter svolgere alcuna attività.
“È una situazione vergognosa nei confronti di tutti i cittadini ma, soprattutto, nei confronti dei più fragili, di chi, come nostro figlio, non ha altre alternative da poter scegliere – hanno proseguito i due genitori -. L’attività in piscina non è soltanto un piacere da soddisfare, per nostro figlio è una necessità fisica e psicologica”.
L’appello di Lelia ed Enzo non deve essere percepito come una voce isolata nel contesto cittadino ma un grido di allarme che raccoglie quello di tante famiglie che si trovano nelle sue stesse condizioni e non hanno la forza o la possibilità di lottare contro un mondo perbenista che non tende la mano a chi ha necessità. Un mondo che tacitamente accetta che i “valori dello sport”, tanto proclamati nei documenti e nei volantini promozionali, rimangano parole vuote e senza fondamento. Problemi che interessano solo una parte della società e, dunque, scarsamente interessanti o degni di battaglia.
“In questi anni abbiamo provato a iscrivere nostro figlio in varie attività sportive adatte alle sue capacità. Le abbiamo provate praticamente tutte. E tutti, nessuno escluso, ci hanno chiuso le porte in faccia, talvolta il rifiuto è arrivato direttamente al primo contatto telefonico, senza nemmeno conoscere il bambino o fargli fare una lezione di prova”. Una “prova” che non sarebbe servita a Luca bensì agli istruttori per capire che accoglierlo nel gruppo avrebbe rappresentato un valore aggiunto, una ricchezza per tutta la squadra per comprendere il vero significato di collaborazione.
“Ci siamo chiesti il perché di questo rifiuto compatto e globale. L’unica spiegazione che abbiamo potuto dare è quella legata al concetto stesso di disabilità perché questo, per allenatori e dirigenti, rappresenta un peso che non hanno voglia di gestire”.
Lelia ed Enzo raccontano con dispiacere alcune vicende di cui sono stati protagonisti come genitori. Talvolta il “no” determinato e immediato seppur sconfortante era meno umiliante di altre proposte che sfioravano il paradossale.
“Eravamo riusciti a iscriverlo in una società ma il bambino, durante la lezione, veniva abbandonato a sé stesso senza che nessuno si curasse di lui. Alla nostra richiesta di una maggiore partecipazione degli istruttori siamo stati invitati noi a scendere in campo insegnare a giocare a nostro figlio. Una richiesta che, ovviamente, annulla completamente l’aspetto educativo e azzera lo stesso concetto di inclusione e socializzazione nel mondo dello sport. “Tutti noi amiamo il bambino. Io e mio marito, ma anche gli altri nostri figli, non perdiamo occasione di trascorrere del tempo insieme e giocare con lui. Perché è così difficile capire che, però, al di fuori del grande amore familiare, lui ha diritto di poter vivere esperienze anche al di fuori del proprio nucleo ristretto, di poter crescere insieme ai coetanei? Lo fa ogni mattina quando esce per andare a scuola. Perché dovrebbe essere diverso nel pomeriggio? Ci amareggia vedere tanti allenatori e squadre presentarsi come accoglienti e inclusivi all’esterno e poi, nel concreto, non provare nemmeno a mettere un pizzico di buona volontà per tendere la mano a un bambino di 11 anni che chiede soltanto di avere le stesse opportunità dei propri coetanei”.
I genitori di Luca non avanzano richieste inaccessibili ma inviti all’accoglienza “per far felice un bambino che si ritrova a passare le sue giornate a casa, da solo, ad annoiarsi”. I suoi amici, conclusa la scuola e svolti i compiti, sono impegnati a partecipare ad attività sportive, talvolta anche più di una. Lui, invece, vive soltanto il rifiuto e la negazione del mondo esterno.
“Vedere mio figlio infelice è la cosa più brutta che ci possa essere – ha proseguito la madre -. Vedere nostro figlio emarginato perché nessuno gli offre la possibilità di iniziare un’attività sportiva soltanto perché è disabile, perché ha la sindrome di down. E, talvolta, ci rendiamo conto che chi ci sta rifiutando non sa nemmeno quali siano le capacità e le difficoltà che potrebbe incontrare durante la lezione. Sentiamo soltanto un <<no>> netto. Nostro figlio è un bambino intelligente, capace di tutto. Non neghiamo che abbia bisogno dei suoi tempi e, talvolta, di un adattamento del tradizionale svolgimento della lezione. Ma se gli si permette di cominciare lui potrà adattarsi al contesto”.
Un insegnante, del resto, dovrebbe sempre spronare i propri discenti a dare il meglio di sé stessi adattando la strategia alla persona che ha di fronte. Le domande che emergono, da questo sfogo, sono molte.
Perché qui, nello sport, fa così paura questo approccio?
Perché qui le paralimpiadi si possono vedere solo in televisione ma nessuno pensa a costituire una squadra di uno qualsiasi degli sport inclusi nella competizione internazionale?
Perché si insegna che “l’importante è giocare” ma poi tutti puntano soltanto a “vincere”?
Domande che sarebbe corretto rivolgere non soltanto ai dirigenti e agli allenatori delle società e associazioni sportive coinvolte in questa vicenda ma estenderlo a tutti. Un appello per il delegato provinciale Coni Salvatore Scarantino, i delegati locali delle Federazioni sportive, i rappresentanti politici tra cui il Sindaco Roberto Gambino, l’assessore allo sport Fabio Caracausi, l’assessora alle politiche sociali Cettina Andaloro, e tutti i consiglieri comunali.
Mettendo a paragone il carattere degli italiani si tende a sottolineare che al sud Italia le persone sono più socievoli e calorose mentre al Nord c’è un maggiore distacco e freddezza. Eppure, andando nel profondo, si nota che questi stereotipi non sono sempre validi. “Spesso ci soffermiamo a chiederci se sia meglio andare via da questa città, trasferirci al Nord Italia, in città più civili, più inclusive, più accoglienti. Come genitori abbiamo il dovere di provare a offrire ai nostri figli le opportunità e gli strumenti adeguati a costruirsi il miglior futuro possibile. Con grande amarezza, però, dobbiamo riconoscere che in questa città, la nostra città, purtroppo non c’è nulla per questi ragazzi. Ci chiediamo, dunque, perché Caltanissetta non può adeguarsi agli standard che si trovano altrove e offrire opportunità e benessere ai suoi cittadini?”