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Via D’Amelio, la strage senza verità: la guerra civile dei trent’anni

Fiorella Falci

Via D’Amelio, la strage senza verità: la guerra civile dei trent’anni

Lun, 18/07/2022 - 16:00

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Una democrazia senza verità è fragile ed è sotto ricatto: il ricatto di chi la verità la conosce e ha la forza di impedire che sia conosciuta, perché inconfessabile in un Paese democratico, così come è insopportabile che quella verità sia potuta accadere, che faccia parte della nostra storia.

Dopo trent’anni dalla strage di via D’Amelio non c’è giustizia né verità per Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, dopo quattro processi e la certezza del “più grande depistaggio della storia italiana”, con tre poliziotti a giudizio (“pesci piccoli” assolti o prescritti) ed un processo che non è riuscito a fare emergere i mandanti né le “menti raffinatissime” che il depistaggio lo hanno pensato e progettato, realizzato e coperto, per decenni, con un falso pentito disposto a scontare 18 anni di carcere confessando un delitto che non aveva commesso.

Perché?

È la punta dell’iceberg che emerge di un conflitto profondo che da almeno trent’anni attraversa il corpo dello Stato, le sue fondamenta giuridiche, i suoi poteri, le istituzioni, le forze dell’ordine, la magistratura: il conflitto tra chi ha costruito, consentito, taciuto il depistaggio e chi ha cercato ostinatamente di farlo emergere, di dimostrarlo, cercando la verità con gli strumenti del diritto, con il coraggio di chi osa non dare per scontata la fedeltà di chi rappresenta lo Stato, mettendo in discussione anche se stesso.

Dopo trent’anni i protagonisti nei ruoli chiave sono scomparsi: il questore (e non solo) Arnaldo la Barbera, il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “faccia da mostro” Giovanni Aiello, l’agente legato a tutti i delitti (e non solo di mafia) più misteriosi. Qualcuno è ancora in vita, Bruno Contrada il più rilevante, e il diritto alla verità, che come cittadini di uno Stato democratico ci compete, farebbe sperare che prima di lasciare questo mondo potrebbero dirla, finalmente, tutta la verità. Ma non succederà.

Quando uno Stato, che si definisce democratico, affida ai servizi segreti la gestione di passaggi così drammatici della propria storia in via definitiva, e non riesce neppure dopo trent’anni e quattro processi a riprendere in mano con la trasparenza del diritto la ricostruzione di tutto quanto è avvenuto, dimostra inequivocabilmente che il conflitto interno è ancora in corso.

È una guerra civile, nella quale la mafia ha agito per procura come braccio armato, nella quale Falcone e Borsellino sono stati la guida avanzata di chi rappresentava lo Stato per la giustizia e per la verità, eliminati per volontà di chi in quella guerra civile guidava altri comparti di quello stesso Stato dalla parte opposta.

Una democrazia autentica non può non essere capace, dopo trent’anni, di fare emergere la verità, di illuminare tutte le oscurità, di svelare tutti gli intrighi, rivalutando così quello Stato che per tutti i cittadini è l’unico potere in cui riconoscersi, da cui sentirsi rappresentati, di cui essere orgogliosi.

Ma fino a quando i figli di Paolo Borsellino diserteranno gli appuntamenti della memoria, gridando con il loro silenzio l’inconfessabile verità che alimenta ancora la guerra civile, la nostra democrazia non potrà dirsi autentica, le nostre istituzioni non rappresenteranno legittimamente tutto il nostro popolo, la libertà di tutti noi sarà inquinata dal veleno di un potere che complotta con il male, se ne serve, lo protegge.

Quando è in corso una guerra civile non si può rimanere neutrali, come se la cosa riguardasse soltanto chi spara in prima persona. La guerra civile divide le coscienze, ci mette gli uni contro gli altri nella quotidianità della vita, determina chi comanda e chi si piega, chi resta libero dentro e chi è disposto a tradire, innanzitutto se stesso. Se si vuole vivere con dignità bisogna resistere, schierarsi, non con un atto eroico, una tantum, ma lottando tutti i giorni per “sconfiggere la mafia che è dentro di noi”, come scriveva Rita Atria prima di morire.

Perché gli anticorpi della democrazia non si generano dall’alto: hanno bisogno di una tensione morale e civile che ognuno di noi deve sapere maturare ed esprimere quotidianamente, in ogni passo della nostra esistenza, alla luce della giustizia (non basta la “legalità”) anche quando ci costa la rinuncia a qualche privilegio, a qualche sponda di accomodamento con il malaffare. Se nessuno di noi è ricattabile lo Stato non sarà ricattabile, la democrazia potrà combattere con armi buone l’inquinamento che continuerà a minacciarla, senza offrire sponde di complicità o anche solo di indifferenza al male, che è sempre in agguato.

Non deve essere un’utopia, perché è l’unica strada per essere veramente liberi. Non ce ne sono altre. Borsellino e Falcone ci hanno creduto, fino in fondo.

Fiorella Falci