È stato l’ultimo leader di popolo che i siciliani hanno avuto nella loro storia: Pio La Torre, ucciso dalla mafia 40 anni fa, insieme a Rosario Di Salvo che lo accompagnava, massacrato a colpi di kalashnikov in una strada di Palermo.
Quando Giorgio Bocca intervistando il generale Dalla Chiesa prefetto di Palermo gli chiese perché la mafia aveva ucciso La Torre, il generale rispose: “Per tutta una vita”, sintetizzando il senso dell’esistenza di un protagonista della storia democratica che aveva testimoniato in prima persona, senza retorica e con coraggio autentico, cosa significa impegnarsi per una società libera dai privilegi e dalla violenza.
Attivo sin da ragazzo, nel dopoguerra, alla guida del movimento per la riforma agraria che vide entrare nella storia centinaia di migliaia di contadini siciliani che occupavano le terre incolte sfidando il potere dei latifondisti e della mafia, da sempre braccio armato dei privilegi secolari. Figlio di contadini, aveva studiato e riscattato i sacrifici della sua famiglia e dei lavoratori siciliani, diventando dirigente sindacale e politico, parlamentare del PCI alla Regione e poi alla Camera dei Deputati, autore della relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia, che nel 1976 indicava con nomi e cognomi le amicizie pericolose di tanti politici siciliani con le organizzazioni criminali e le complicità con il potere mafioso.
Aveva avuto sempre ben chiaro il rapporto strutturale tra la mafia e lo sfruttamento delle risorse della Sicilia, soffocandone lo sviluppo economico e sociale, la mafia che aveva sostituito i privilegi delle antiche classi dirigenti dell’isola con il controllo criminale del territorio e della sua economia, infiltrandosi nelle istituzioni e imponendo con la ferocia il cappio dell’omertà e della collusione anche alla società civile.
Aveva sempre saputo leggere in profondità, Pio La Torre, le trasformazioni dei poteri criminali che avevano segnato i cambiamenti sociali, l’espansione nazionale ed internazionale del potere mafioso, e le aveva sempre interpretate politicamente, non secondo una logica puramente “giudiziaria”, ma come struttura di potere organizzata e complessa che era riuscita ad imporre con la violenza una propria egemonia economica e sociale, determinando anche mentalità, comportamenti pubblici, rapporti occulti all’interno dei sistemi di potere dello Stato e all’interno di classi sociali diverse e stratificate, dal sottoproletariato al ceto medio alla grande borghesia affaristica, ognuna delle quali rivestiva ruoli diversi nella gerarchia delle funzioni del sistema criminale, parallelo e per molti versi organico e “indispensabile” al mantenimento degli equilibri politici del potere.
Dopo i delitti eccellenti del 1980 (Piersanti Mattarella e Gaetano Costa, vertici della politica e della magistratura) lui che era componente della Segreteria nazionale del PCI, chiede a Berlinguer di tornare in Sicilia da Segretario regionale del Partito, avendo compreso che ci si trovava di fronte ad un salto di qualità della presenza pervasiva della mafia che avrebbe annientato definitivamente le possibilità di sviluppo della sua terra.
Inquadra subito la Sicilia in uno scenario internazionale di cui fa emergere tanti aspetti determinanti: era in corso l’operazione che avrebbe portato a Comiso missili a testata nucleare per conto della NATO, facendo della Sicilia, al centro del Mediterraneo, una enorme portaerei schierata nello scenario della guerra fredda, obiettivo militare privilegiato di ogni possibile attacco, ma anche, e fu lui ad esplicitarlo, grande retrobottega di tutti i traffici oscuri dell’Occidente, dalla droga ai servizi segreti, deviati e non.
“La Sicilia diventerebbe un covo di spie e di affari loschi come era Cuba nel dopoguerra” dichiarava apertamente in tutte le riunioni, e comprese che era indispensabile chiamare i siciliani a mobilitarsi per impedire questo disegno colonizzatore del militarismo americano, che con la guerra fredda aveva reso l’Italia pedina subalterna dei propri interessi in Europa e nel Mediterraneo.
Il movimento di lotta contro l’istallazione dei missili nucleari a Comiso diventò con Pio La Torre la priorità di tutta la sinistra siciliana e assunse presto una dimensione internazionale. Migliaia di attivisti arrivavano da tutta l’Europa per partecipare alle marce della pace organizzate intorno alla base. Presero posizione favorevole al movimento la Chiesa siciliana ed il mondo cattolico, le associazioni, il volontariato. Fu raccolto un milione di firme in una petizione che chiedeva al Governo la rinuncia al progetto militare.
Le resistenze più forti e per lui amarissime venivano proprio dalla sinistra istituzionale. Al vertice del PCI Giorgio Napolitano, responsabile esteri del Partito, premeva in tutti i modi per tacitare il movimento pacifista che “ci metteva in difficoltà con gli Alleati” e all’interno del PCI siciliano il gruppo dirigente più conservatore, abbarbicato ormai da decenni ai piccoli privilegi del consociativismo parlamentare, cercava di isolarlo e di disinnescare la portata di quel movimento, che finalmente ridava la parola al popolo siciliano su una grande questione politica e insieme legata alla vita quotidiana. Oggi, purtroppo, ancora attualissima.
Lotta per la pace e lotta per la legalità vera, contro i poteri occulti ed il potere mafioso. Negli ultimi mesi della sua vita La Torre presenta proposte di legge che, approvate dopo la sua morte, cambieranno la storia non solo giudiziaria del nostro Paese: il riconoscimento del reato di associazione mafiosa e la possibilità di sequestrare da parte dello Stato gli immensi patrimoni che la mafia aveva illecitamente accumulato.
Sapeva leggere la società del suo tempo, sapeva dove intervenire per rendere efficace e non solo retorico l’impegno dello Stato per la legalità. Sapeva quali intrecci inconfessabili gli interessi criminali sono capaci di tessere sotto la superficie di quello che l’informazione ufficiale racconta. Aveva compreso il ruolo di Gladio, la struttura voluta dalla CIA in Italia per il controllo politico degli equilibri occidentali, e ne aveva ipotizzato nei suoi diari (pubblicati postumi) il coinvolgimento nelle trame mafiose.
La Torre ha interpretato fino in fondo, con lucidità e passione, il compito della politica in una società democratica e la responsabilità che chi guida la politica deve avere nei confronti dei cittadini in carne ed ossa, valorizzandoli come soggetti protagonisti dell’agire collettivo, non come elettori da coinvolgere nelle reti clientelari di un consenso drogato che non avrebbe mai consentito un vero cambiamento.
Ha chiamato quei cittadini a mobilitarsi insieme alla politica, come dovrebbe essere sempre, su questioni concrete ed insieme ideali, partendo dalle cose per affermare le idee, tenendo insieme istituzioni e movimenti popolari come dopo di lui nessuna parte politica ha più saputo fare in Sicilia, a cominciare dalla Sinistra.
Ha pagato con la vita questa coerenza nel testimoniare la politica, ma ha lasciato una traccia profonda dentro la quale possono ancora germogliare i semi di una rinnovata resistenza democratica.
C’è una scena, alla fine di un film su Placido Rizzotto, sindacalista ucciso dalla mafia nel dopoguerra, in cui si incontrano a Corleone e si stringono la mano un giovane ufficiale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa e un giovane dirigente sindacale dei braccianti, Pio La Torre. Trent’anni dopo, entrambi, a distanza di cento giorni, a Palermo, sarebbero stati massacrati dalla mafia, e non in un film.