Alle porte dell’Europa c’è una guerra che si combatte con le bombe, con le news veicolate attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con l’attacco agli edifici senza curarsi se ci siano effettivamente dei civili al suo interno.
E in mezzo a tutto ciò c’è un fiume di persone che, come un’emorragia, cerca di fuggire dai luoghi familiari nel quale è nato, cresciuto e ha “messo su” una famiglia.
Prendersi cura di queste persone,
offrire loro un rifugio, un piatto caldo, un ambiente nel quale poter vivere
attendendo che la guerra finisca. Questo è diventato il principale obiettivo di
numerose associazioni umanitarie e religiose che, a livello internazionale, stanno
dispiegando le loro forze nel tentativo di soddisfare i bisogni primari.
Anche in Sicilia e a Caltanissetta è stata messa in moto una macchina organizzativa che collabora per poter contribuire per sostenere i profughi.
La Cooperativa Etnos, a Caltanissetta, al momento sta accogliendo 16 persone nella “Casa di José”. Donne, adolescenti e bambini che sono arrivati grazie alla mediazione della famiglia Bartoli, con la Farm Cultural Park di Favara, e un uomo anziano accompagnato dalla Polonia al cuore della Sicilia dal Graf (Gruppo di accoglienza familiare).
Sono proprio loro, i profughi, con gli occhi lucidi e nostalgici, a raccontarci il loro stato d’animo, le emozioni vissute durante i primi giorni di guerra, la paura che li ha spinti a dover andare via e le loro aspettative future.
Famiglie spezzate in due; da una parte gli uomini dai 18 ai 60 anni, rimasti in patria a combattere, e dall’altra le donne e i bambini, fuggiti di notte per prendere anche due o tre treni in vista di una destinazione ignota. Poche le eccezioni, come ad esempio i padri con più di tre figli “autorizzati” a uscire dal paese per prendersi cura della prole.
“Molte persone preferiscono restare vicino al confine del Paese – ci ha raccontato una donna ucraina residente a Caltanissetta che sta offrendo il suo aiuto in veste di interprete -. Per loro la Sicilia è una destinazione troppo lontana da raggiungere e, soprattutto, da lasciare per rientrare in patria appena sarà possibile. C’è chi si appoggia ad amici o parenti ma c’è anche chi non ha nulla perché ha perso tutto. Per loro qualsiasi luogo venga offerto diventa una meta ideale”.
“Siamo grati a chi ci ha accolto – racconta una donna arrivata a Caltanissetta con la madre, la sorella e i nipoti -. Desideravamo trovare una casa che non fosse sorvolata dalle bombe e di avere del cibo per mangiare. Ognuno di noi è partito solo con qualche indumento dentro uno zaino. Chi ha avuto fortuna anche un piccolo oggetto personale, come il proprio peluche o un quaderno nel quale sono scritte le sue poesie. Abbiamo trovato una comunità che ci ha dato molto più di quello che speravamo. Ci ha aiutato a inserire i bambini non soltanto a scuola ma anche, gratuitamente, in attività sportive pomeridiane, ci hanno persino portato a teatro”.
Non esistono contributi pubblici per sostenere queste persone. Tutto arriva dalle associazioni private e dalla generosità di cittadini che effettuano donazioni.
I bambini, soprattutto i più piccoli, non hanno ben compreso quello che sta succedendo. Le madri cercano di tutelarli facendo vivere questo momento come un’esperienza nuova, un viaggio inaspettato in un paese straniero, una videochiamata che arriva ogni 1-2 giorni dal padre rimasto in patria. I più grandi, invece, comprendono il dramma e cercano di reagire come possono a un mondo che, attorno a loro, è cambiato completamente.
È diversa la lingua che sentono parlare, il modo di vivere, il clima. Tutto per loro è “strano” iniziando dalla tavola, imbandita con un piatto di pasta invece che una zuppa calda a base di lenticchie, carote, verza o barbabietola. Nessuna “abitudine” è più la stessa.
“È difficile capire cosa succederà dopo – ha proseguito l’interprete – anche perché ancora non si sa quanto durerà questa situazione temporanea e in quali condizioni potrebbero ritrovare la città dalla quale provengono. Qui ci sono persone alle quali è franata la terra sotto i piedi, hanno abbandonato tutto, non per scelta ma per necessità. Ed è anche per questo che, per loro, è difficile ambientarsi. Non sono dei semplici emigrati. Si tratta di profughi di guerra. Qualcuno resterà e altri andranno via e a contribuire alla scelta saranno numerosi fattori tra i quali il livello di inclusione nella comunità accogliente e la condizione nel loro Paese. Quando io li incontro per la prima volta li invito a prendere il meglio da questa situazione, a ringraziare Dio per essere ancora vivi ed essere arrivati in un posto bellissimo che li ha accolti a braccia aperte. Non è facile ma, al momento, è l’unica cosa che possono fare”.