Rivive in un libro una pagina di storia dimenticata, che unisce Caltanissetta alla grande storia del nostro Paese. È in libreria da pochi giorni, edito da Sciascia, “Storia di un partigiano. Gino Cortese, il Commissario Ilio” biografia di Gino Cortese (1920-1989), comandante partigiano, parlamentare regionale (1947-1967) e docente universitario, un saggio storico accurato, scritto dal figlio Enrico, psichiatra, che da oltre 40 anni vive in Piemonte.
La genesi del libro è legata ai giovani nisseni: di Cortese si erano occupati qualche anno fa gli studenti del suo Liceo, il Classico “Ruggero Settimo” con i loro docenti, approfondendo la storia dei partigiani nisseni e ritrovando molta narrazione della sua vicenda storica nella letteratura sulla Resistenza, nei due romanzi che lo vedono protagonista: “La 47°” e “La sentenza” e ne “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia.
Di Gino a scuola c’era soltanto una foto da bambino, probabilmente di quando a dieci anni si era iscritto al Ginnasio inferiore (così si chiamava allora la scuola media) e questo ha suscitato grande curiosità negli studenti che dalle pagine di Sciascia e dei romanzi resistenziali scoprivano invece un uomo forte, coraggioso fino ad essere spericolato, appassionato combattente per la giustizia quando ironico antiretorico e sagace.
Gino Cortese appartiene a quella generazione coraggiosa che ha attraversato il ‘900 dei totalitarismi e ha saputo costruire in Italia una democrazia solida, aperta al futuro, e in Sicilia ha guidato l’uscita dal feudalesimo del latifondo e l’ingresso nella società democratica di un popolo schiacciato per secoli dalla sottomissione e da uno sfruttamento disumano.
“Storia di un partigiano” è il titolo che meglio esprime il senso della vicenda storica e dell’avventura esistenziale di Cortese, sin da quando, giovanissimo liceale, negli anni ’30, entrava nella cellula del Partito Comunista clandestino, dove incontrava Pompeo Colajanni, Emanuele Macaluso, Gaetano Costa e Rita Bartoli, Gino Giannone e Michele Ferrara, intorno alla quale simpatizzava il giovane Leonardo Sciascia, guidati da Luziu Boccadutri, il mitico cospiratore collegato con il centro clandestino del Partito che tesseva tutta la Sicilia interna negli anni durissimi della dittatura fascista.
Di buona famiglia borghese, studente del liceo classico, sin da ragazzo Gino manifestava il coraggio di prendere posizione contro-corrente, di scegliere da che parte stare, partigiano appunto, ribelle all’ingiustizia in nome del senso di umanità, non tanto un essere contro, ma un essere per: la giustizia, la solidarietà verso gli ultimi, i minatori e i contadini che erano gli invisibili per la società dei benpensanti nisseni che prosperava accidiosa sul loro lavoro e sul loro sfruttamento.
La sua è stata una generazione di giovani che hanno saputo prendere in mano la storia e diventarne protagonisti, classe dirigente, farsi Stato, ma dalla parte degli ultimi, dando corpo e pensiero all’Italia nuova che dalle macerie della guerra, attraverso la Resistenza, sceglieva la strada della libertà e della giustizia sociale come stile di vita non soltanto per sè, prima ancora che come valore ideale.
Tutto il contrario del credere-obbedire-combattere in nome del quale erano stati indottrinati invano dal fascismo, tutto il contrario della banalità del male di chi era stato educato ad eseguire gli ordini di un Duce che aveva sempre ragione.
Il gusto della sfida, al potere, ai potenti, senza mai considerarli invincibili, lo aveva accompagnato a fronteggiare le spie della polizia fascista negli anni del regime, l’occupazione nazista durante la Resistenza, i poteri forti e violenti degli agrari e della mafia nelle lotte del dopoguerra insieme ai contadini e ai minatori.
Comunista ironico e mordace, era l’opposto dello stereotipo dei nisseni “gravi e metafisici” di cui aveva scritto Vitaliano Brancati che nel 1937, insegnando a Caltanissetta, aveva raccontato all’Italia i suoi abitanti sulle pagine dell’Omnibus di Longanesi. Le sue battute fulminanti (alcune entrate nella mitologia politica del dopoguerra) sintetizzavano il senso di un intero comizio e rimanevano nell’immaginario collettivo, indimenticabili.
L’esperienza della guerra e la scelta della Resistenza lo avevano portato a diventare un comandante partigiano a 23 anni, sull’Appennino parmense, “Commissario politico” della 47° Brigata Garibaldi, responsabile ed educatore ai valori dell’Italia che si voleva costruire, un ruolo quasi giacobino, per imprimere alla guerra di liberazione una direzione di futuro.
Si pensava ad un sistema diverso da costruire: non solo l’Italia libera dallo straniero e dalla dittatura, non la vecchia Italia liberale da riesumare, ma un mondo nuovo, che guardava alle rivoluzioni del ‘900 ma senza perdere mai l’ancoraggio alla libertà riconquistata nelle forme progressive della democrazia che la Costituzione avrebbe disegnato per il secolo successivo alla guerra.
Era l’Ordine Nuovo pensato e descritto da Gramsci, che dava alla nuova generazione di intellettuali la responsabilità di farlo vivere nella società, nella vita quotidiana degli uomini e delle donne riscattati dalla sottomissione e liberati dal bisogno.
Per loro si sarebbe battuto con tutte le sue forze, finendo persino in carcere nonostante il suo ruolo di parlamentare, testimone sempre coerente delle idee che sosteneva e per questo amato e popolare come nessun altro dirigente politico tra i compagni del suo territorio.
Non li avrebbe dimenticati, quei compagni operai, per i quali alle 6 di mattina andava a tenere l’ora politica nella sezione del Partito prima che andassero a lavorare, nemmeno nei decenni da deputato e capogruppo del PCI all’Assemblea Regionale, gli anni difficili della riforma agraria e delle lotte per lo sviluppo della Sicilia che aveva conquistato l’autonomia ma non riusciva a liberarsi dai vecchi poteri forti e dalla criminalità mafiosa che continuavano a tirare i fili e a tenere in pugno le risorse da sottrarre al bene comune.
Gli anni del “milazzismo”, esperienza devastante per la sinistra e per la politica siciliana, consumata mentre era in corso una partita miliardaria e internazionale intorno alle risorse petrolifere della Sicilia e alla strada maestra del conflitto sociale si preferiva la manovra di palazzo, hanno segnato drammaticamente il suo rapporto con il gruppo dirigente “allineato” del Partito e hanno corroso probabilmente, anche se nella discrezione composta del suo super-io comunista, con il veleno della delusione la speranza in una storia diversa possibile e la fiducia nel Partito “intellettuale collettivo” capace di costruire e guidare quella storia.
Lui era stato sempre almeno un passo oltre l’inquadramento burocratico delle nomenklature di partito. Aveva sempre saputo riconoscere l’intelligenza e l’integrità morale anche degli avversari: come quando testimoniò a favore del preside Luigi Monaco epurato come gerarca fascista nel dopoguerra, di cui raccontò come da studente ne avesse apprezzato invece la capacità di promuovere il libero pensiero e di proteggere silenziosamente studenti e professori dissidenti dal regime.
È significativo che la sua tesi di laurea fosse sul personalismo cristiano, la sua prima pubblicazione, nel 1966, intrapresa la carriera universitaria, sia stata dedicata a Teilhard de Chardin e la pubblicazione per la libera docenza al “Problema della prassi in Sartre”. Tutti pensatori “eretici” delle rispettive “chiese” ideologiche, indicatori di quella sua soggettività divergente, che lo avrebbe portato ad apprezzare ed appoggiare gli eretici del Manifesto, radiati dal PCI per le loro posizioni avanzate, esplose dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968.
Il respiro insopprimibile della libertà, che lo aveva accompagnato dalle beffe giovanili contro il regime fascista alla scelta della Resistenza e all’impegno politico accanto agli ultimi della società, continuava a segnare il ritmo del suo pensiero senza calcolare le opportunità di apparato che tutelavano, nella prima Repubblica, i dirigenti politici e le loro carriere.
Il coraggio della sfida e la passione che non si è arresa, si sono riconvertiti nell’insegnamento universitario che ha segnato, nella seconda fase della sua vita, la sua mission di impegno intellettuale di educatore.
La passione per un respiro ampio della politica non ha ceduto dentro di lui neppure nella solitudine della scelta di non appartenenza degli ultimi anni, molto amara probabilmente per chi dell’appartenenza ad una comunità politica aveva fatto per tutta la vita il proprio orizzonte di senso. Lo testimonia l’ultimo ricordo pubblico di Cortese che si legge negli Atti parlamentari della sua commemorazione all’Assemblea Regionale: nella più grande piazza di Palermo piena di centomila persone al funerale di Pio La Torre ucciso dalla mafia, con Berlinguer e tutto il gruppo dirigente del PCI sul palco insieme al gotha delle istituzioni regionali contestate e fischiate dalla piazza, Gino Cortese era lì, in un angolo di quella piazza, già segnato pesantemente dalla malattia ma “sempre appassionatamente attento alle vicende della sua Sicilia”, immerso in quel popolo lavoratore che era ancora anche il suo e in cui ancora si riconosceva, forse pensando di avere il privilegio beffardo di assistere così, da vivo, anche al suo funerale.