“Il mio supervisore era una persona che amava definirsi un provocatore, dispensava battute. Lo faceva in modo costante e quotidiano. Io cercavo di ignorarle e andare avanti. Alla fine è stato il destino a scegliere per me e, per seguire un altro obiettivo professionale, ho presentato le mie dimissioni”.
Il racconto di Martina (useremo un nome di fantasia per proteggere l’anonimato della donna) è iniziato senza troppa importanza, tra una chiacchiera e l’altra con dei conoscenti che chiedevano perché avesse cambiato il lavoro del quale, fino a poche settimane prima, sembrava essere molto soddisfatta. Sarebbe passata tranquillamente come una “chiacchiera da bar” se, tendendo l’orecchio, non si fosse rimasti ad ascoltare tutto il racconto.
Il “provocatore” – colui che molti, inquinati da una cultura maschilista, avrebbero potuto definire un “simpaticone” o un “bontempone” capace di creare un clima di socialità all’interno del gruppo di lavoro – si è rivelato un molestatore sessuale.
“Non perdeva occasione per fare battute. Alcune sottintese, altre molto esplicite ma tutte con allusioni sessuali e denigratorie della mia professionalità”.
Un giorno era il profumo che utilizzava e restava nell’aria.
Un altro l’abito che indossava. Non era mai banale, mai anonimo, mai innocente o dal significato neutro. “Se sceglievo un pantalone nero mi diceva che avevo intenzione di ammaliare ma se era rosso o da una tonalità accesa volevo attirare l’attenzione.
Se si intravedeva la maglietta sotto il cardigan, invece, ipotizzava che avevo qualcosa da nascondere. Io non reagivo a voce ma lo guardavo sperando che, nei miei occhi, lui leggesse il disappunto e smettesse di comportarsi in quel modo”.
Martina, però, non è una femme fatale che ammalia chi incontra nel suo percorso.
È una donna come tutte le altre. Una bella donna. Ma questa non è una sua colpa.
È una brava professionista. E come tale dovrebbe essere trattata e non come un oggetto grazioso che abbellisce l’ufficio ma del quale non si ricorda nemmeno il nome.
“Mi chiamava <<la dottoressa>> o usava un altro nome femminile. Mai il mio. Una confusione che spesso capitava con altre mie colleghe. I nomi degli uomini, invece, li ricordava tutti e non sbagliava mai”.
“Ogni giorno mi svegliavo chiedendomi quale altra provocazione verbale avrei subito. Nonostante io abbia una corporatura esile ho perso 5 chili in 3 mesi”.
Martina non è stata l’involontaria destinataria di una “battutaccia”. Quella, se singola, può essere perdonata. Si è trattato piuttosto di un martellamento continuo che, lentamente, l’ha logorata. È stato mobbing aggravato da molestie sessuali.
Quando la linea di demarcazione è tracciata sul terrorismo psicologico è difficile da riconoscere e, soprattutto, accettare come tale. Non bisogna, però, mai temere di utilizzare le corrette definizioni soprattutto se il racconto della vittima può diventare un’opportunità per far riflettere e far reagire alla violenza.
Nella storia di Martina esistono due colpevoli: il predatore e il branco. Ed è stato proprio quest’ultimo, rimanendo a guardare in silenzio senza prendere una posizione chiara, a rendere la situazione ancora più estesa. Un silenzio-assenso che incute forza nell’oppressore e soffoca la vittima.
“I miei colleghi, in disparte, si mostravano ammirati perché ero capace, ogni volta, di mandare giù ogni allusione senza battere ciglio. In disparte mi dicevano <<noi ti ammiriamo>>. Loro dovevano solo lasciarlo parlare quando commentava le altre donne. Io, invece, subivo in prima persona questo suo approccio”.
Ma non era questo il sentimento che dovevano provare né è stato il modo corretto di manifestarlo. Dovevano reagire, difenderla, parlare.
“Esiste, purtroppo ancora oggi, una cultura che legittima l’indifferenza come atteggiamento corretto da mantenere – ha spiegato Ester Vitale, sindacalista della UIL e portavoce di Onde Donneinmovimento – . Una percezione sbagliata che si riscontra in diversi casi di comportamenti illeciti, comprese le molestie familiari.
Sono tante le implicazioni che possono influenzare questo comportamento ma nessuno può essere giustificato poiché, nei casi più gravi, la vittima può subire gravi lesioni fisiche, psicologiche o, peggio, la morte. Molto spesso i genitori, i fratelli o gli amici sanno ciò che accade ma non parlano pensando, a torto, che siano faccende private che riguardano soltanto la vittima e l’aggressore.
Nel mondo del lavoro, invece, subentrano altre dinamiche. Alcuni colleghi possono guardare queste <<attenzioni>> con invidia pensando che, se ben giocate, possono diventare un trampolino di lancio per fare carriera. Una concezione radicata sul pregiudizio secondo il quale solo con la bellezza e la disponibilità una donna possa raggiungere il successo. Altri, invece, temono che l’esposizione a difesa possa causare ripercussioni nella propria posizione professionale. A tal proposito, però, non solo l’Italia ma anche l’Unione Europea sta promuovendo una cultura orientata a difendere l’anonimato dei << whistleblower>> quei suggeritori che denunciano un illecito perpetuato da altri”.
Martina è rimasta ad ascoltare in silenzio anche i colleghi, ha sorriso grata della solidarietà e, con determinazione, è andata avanti ma non voleva lasciare il suo posto per colpa del suo superiore così, un giorno, ha deciso di chiamarlo in disparte e affrontarlo. “Anche in quel caso sono stata screditata e sminuita. Mi ha detto che io non sapevo cogliere le affettuose e simpatiche provocazioni. Che avevo frainteso e, di questo – soltanto di questo – ha chiesto scusa”.
La vicenda, però, non si è conclusa e, dopo l’apparente chiarimento delle posizioni, l’uomo ha cambiato atteggiamento ma senza assumere quello auspicato da Martina.
Il suo supervisore, colui con il quale doveva lavorare in stretta sinergia per svolgere in modo adeguato il proprio lavoro, si è defilato arrivando quasi a ignorarla del tutto. Il “giocattolo” con il quale si era divertito si era rotto e lui non aveva intenzione di “perdere tempo” collaborando con una donna bella ma permalosa.
“Sono passata dal dover subire provocazioni squallide all’essere completamente ignorata nel mio ruolo e professionalità come se, in quel grande ufficio open space, fosse stato costruito un muro invalicabile. Andando via da quell’ufficio è stata la mia fortuna e, in poche settimane, ho recuperato serenità e peso”.
Quella vissuta da Martina è stata una molestia sessuale celata dalla voce gentile e dal sorriso delicato. L’intento non era quello di creare convivialità ma destabilizzare la donna.
Una forma di mobbing resa ancora più grave dall’omertà di chi, per paura di perdere il proprio lavoro o adottare una posizione scomoda, ha scelto di non esporsi pubblicamente andando, involontariamente e inconsapevolmente, a rafforzare l’ego narcisista del molestatore.
“E’ molto frequente che la vittima accetti di continuare a vivere questa condizione opprimente – ha proseguito Ester Vitale -. Le necessità economiche sono tra le principali cause ma anche il desiderio di non vedere infrante le proprie aspirazioni di carriera da chi abusa del proprio ruolo. È necessario, però, far capire che tali atteggiamenti non vadano mai tollerati ma, al contrario, denunciati”.
A Caltanissetta è possibile rivolgersi alla Consigliera di Parità Alessandra Cascio o al Centro Antiviolenza. Le donne vengono ascoltate e, con il supporto di professionisti del settore, supportate nel loro percorso di denuncia e di rinascita.
L’accettazione di un abuso proprio o altrui non è l’unica soluzione da percorrere né quella più facile. Girare la testa dall’altro lato, rispondere con un sorriso a una battuta offensiva e incoraggiare il silenzio corrode lentamente l’individuo.
“Ci rivolgiamo a tutte le donne che subiscono molestie e a tutti coloro che ne sono a conoscenza – ha concluso la portavoce di Onde Donneinmovimento -. Venite a trovarci o contattateci telefonicamente chiamando lo 0934 551010 oppure il 380 192 9687 e , con la massima discrezione, ci attiveremo immediatamente per aiutarvi e sostenervi nelle vostre necessità”.
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