Una chiesetta “immersa e quasi nascosta tra la vegetazione” come ormai nella città di cemento armato è impossibile trovarne: Maria SS. della Catena, santuario diocesano dal 2002, che padre Andrea Muscarella ha studiato nella sua lunga storia, ricostruita con pazienza e rigore analizzando documenti, immagini e memoria tramandata, nel suo ultimo lavoro storiografico: “La devozione alla Madonna della Catena a Caltanissetta” (Edizioni Lussografica) recentemente pubblicato.
La ricostruzione storica, che inquadra in un orizzonte regionale la realtà nissena, intreccia la storia del piccolo tempio con le sue trasformazioni nel corso degli ultimi tre secoli, con l’attenzione antropologica alla pietà popolare (con una ricca appendice di preghiere dedicate in lingua e in dialetto che la documentano) e la presenza del clero cittadino, secolare e regolare, che ne ha curato il rapporto con i fedeli, provenienti da ogni quartiere e contrada del nisseno, legati da una devozione particolare al culto della Vergine della Catena.
Dalle pagine di padre Muscarella emerge un filo rosso, offerto spontaneamente dalla successione degli eventi che vengono analizzati, che mi è sembrato particolarmente interessante per la sua corrispondenza simbolica con il percorso della identità cittadina di Caltanissetta: una certa ambivalenza della complessità, con una serie di elementi e processi duali, in divenire, in trasformazione, che rappresentano in miniatura l’immaginario di una identità mutante (o soltanto mutevole) di una città che nei tre secoli, dal ‘700 ai nostri giorni, ha cercato, anche disorganicamente, una strada per crescere.
Intanto gli elementi geografici: un culto, quello della Madonna della Catena, quasi esclusivamente meridionale, che in Sicilia unisce Palermo e Caltanissetta, capitale e centro interno dell’Isola, con le due chiese a lei dedicate, in cui è identica la catena che la Vergine tiene nella mano destra, mostrando lo strumento della servitù umana che la sua intercessione potente può eliminare. Una condanna ingiusta del potere politico a Palermo nel 1392, con il miracolo che spezza le catene di tre giovani scampati così alla morte e illumina il re Martino d’Aragona che, racconta il Mongitore, era riuscito a sbarcare a Palermo proprio grazie alla protezione della Madonna.
A Caltanissetta la piccola chiesa viene dedicata alla Madonna della Catena nel contesto del ‘700, il secolo della lunga battaglia giuridica dei notabili nisseni contro la signoria feudale dei Moncada, e proprio a un sacerdote di una delle famiglie che guidavano l’opposizione, i Calafato, viene affidata la cura della chiesa, una delle 65 della città, in cui i 75 sacerdoti e 65 religiosi costituivano una struttura potente di coesione sociale e orientamento morale che mediava tra popolo lavoratore e classe dirigente.
La collocazione della chiesa, sul limes tra città e campagna, e con due diversi accessi, (ascensionale dal piano strada con una scalinata e discensionale dalla rotonda belvedere con un sentiero a gradini) è ancora simbolicamente efficace per raccontare quel modello di sviluppo post-feudale della Caltanissetta che voleva sottrarsi alla signoria dei Moncada, terziarizzando in proprio la produzione agricola (e di lì a poco anche mineraria), in un orizzonte di mercato, in cui anche le maestranze dell’artigianato produttivo avrebbero svolto una funzione importante.
Ancora oggi nelle famiglie che hanno tramandato la devozione alla Madonna della Catena c’è sempre un’ascendenza da quel mondo della campagna burgisi, che lentamente si distaccava dalla sottomissione feudale dando vita ad un ceto medio di transizione che sarebbe stato protagonista dello sviluppo cittadino dal secolo XIX in poi.
Un altro elemento “dinamico” è legato alla dedicazione della chiesetta: inizialmente votata a S. Margherita di Scozia, che dava il nome alla contrada (su cui fu costruito poi il viale Regina Margherita, intrecciando argutamente toponimo antico e nuova fedeltà sabauda), mentre a S. Margherita di Antiochia martire nel III secolo è dedicata la fontana ancora in esercizio (anche se soffocata da due blocchi di cemento) nella via Niscemi sottostante.
A metà del ‘700 cambia la denominazione: la Madonna della Catena prende il posto di S. Margherita e la statua che da allora viene collocata al centro sopra l’altare è un altro simbolo potente dei processi del divenire nisseno, che in quel secolo subiva un’accelerazione decisiva. È una delle più antiche venerate in città, risale al XVI secolo e viene dalla chiesa dei Carmelitani (che sarebbe stata abbattuta nel 1866 per costruire il Municipio): rappresentava appunto la Madonna del Carmelo con l’abitino carmelitano nella mano destra, e nel trasferimento nella chiesetta suburbana viene “cambiata d’abito” impugnando una catena al posto dello scapolare carmelitano, identica a quella dell’analoga statua della chiesa di Palermo.
La statua di terracotta e gesso viene più volte restaurata con nuovi elementi di legno, stucco, tela olona e ceramica, ed il Bambino, retto con il braccio destro ed abbigliato sul modello del Gesù di Praga, legato alla devozione carmelitana, irrobustita negli anni del Vescovo carmelitano Mons. Intreccialagli, risale a prima del Concilio di Trento (1545-1563) perché scolpito nel legno con tutti gli elementi anatomici, come non sarebbe più avvenuto nel clima della Controriforma.
Il sacerdote Michele Ammigliore Calafato, a cui viene affidata la cura pastorale, procede ad una serie di lavori di ampliamento: allungando la navata, costruendo la sacrestia, una tribuna con cantoria e organo sopra la nuova porta di ingresso e sistemando il sagrato con un piazzale recintato e dotato di sedili, per ospitare all’aperto il popolo dei fedeli nelle festività di maggiore afflusso.
I restauri proseguiranno periodicamente nei decenni successivi, sempre con spese sostenute dal contributo dei fedeli, nel 1896 e nel 1949, purtroppo adeguandosi all’edilizia più anonima del ‘900: le antiche mura in pietra viva vengono consolidate ma intonacate con toni pastello, secondo lo stile che stava caratterizzando l’espansione urbanistica della città.
Ultimo elemento indicativo del divenire sistematico della chiesetta, la mutante posizione delle statue più importanti, un tempo collocate ai due lati dell’altare nella parete centrale e riposizionate successivamente (probabilmente negli ’40 del ‘900) sulle pareti laterali: S. Margherita, antica titolare, a destra, il Crocifisso in alto a destra della porta principale e l’Ecce Homo (unico simulacro scolpito in una chiesa nissena) nella parete di sinistra.
Quest’ultima statua, di gesso e cartapesta risalente al 1784, fino a pochi decenni fa con una parrucca di capelli veri dono ex voto delle devote fedeli, è legata a una storia importante della pietà popolare cittadina: con molta probabilità sfilava in processione il Giovedì Santo, quando nel 1840 la processione delle Vare venne ripristinata, come quarto mistero (detto Lu Cciaòmu), icona della sofferenza di Cristo e del popolo devoto, prima che venisse affidata ai Biangardi (dal 1892) la costruzione dei grandi gruppi che ancora oggi rappresentano il momento di più popolare partecipazione della Settimana Santa cittadina.
Anche in questa veste emerge il legame tra città e campagna che caratterizza la chiesetta: il quarto mistero era infatti rappresentativo degli “ortofrutticoli e pizzicagnoli” ceto misto del lavoro autonomo legato ai prodotti della terra, piccola borghesia agro-urbana in espansione, come il resto della città ormai diventata capoluogo di provincia. Così come l’unica edicoletta che tra le strade cittadine è dedicata alla Madonna della Catena si trova all’incrocio della Strata ‘a foglia con la via S. Cataldo, nel cuore dello storico mercato ortofrutticolo (uno dei più antichi della Sicilia).
Radicate e multiformi le manifestazioni di pietà popolare che intorno alla Madonna della Catena aggregavano periodicamente i fedeli: sette sabati dopo la Pasqua solennizzati da celebrazioni e pellegrinaggi, i “viaggi scalzi” per grazia ricevuta tipici della devozione del “cammino”, gli ex voto, dai più poveri ai più preziosi, donati alla Vergine, la tradizione delle “verginelle”, ragazze povere invitate a pranzo per devozione da famiglie benestanti, l’offerta del pane benedetto.
È una storia di fede semplice e di preghiera autentica, quella della chiesetta, ricostruita con precisione scientifica dalla ricerca di padre Muscarella, un “santuario a misura umana” come l’autore la definisce nelle conclusioni, ma “avvolto dall’eco della storia e dalla presenza amorosa di Maria”.
Si nota come oggi, nel contesto urbanistico cittadino ed ecclesiale, il piccolo santuario non abbia “nulla di imponente”, ma forse è proprio questo l’ultimo messaggio simbolico che ci affida: è come la città, che per tre secoli ha rappresentato nelle sue trasformazioni e nelle sue ambivalenze, che oggi si ritrova a non avere nulla di imponente da iscrivere nella sua identità contemporanea, ma in quella piccola chiesa continua a pregare e a sperare.