Le domande
In questi giorni in cui l’umanità è impegnata a fronteggiare la “piaga” di un’epidemia che sta mettendo in ginocchio l’assetto sociale ed economico di tutto il mondo, sono tante le domande che si fanno strada nella nostra mente e nel nostro cuore. Domande alle quali facciamo spesso fatica a rispondere. Per alcune di esse, d’altronde, non possediamo la necessaria competenza per poterlo fare. Grazie a Dio, però, possiamo contare su tanti uomini e donne di scienza che ci stanno aiutando e ci aiuteranno a capire come sia stato possibile cadere nella rete di questo pernicioso virus e, soprattutto, come e quando sarà possibile uscire dall’attuale emergenza e tornare a riprenderci in mano la vita nella sua quotidiana normalità.
Il Coronavirus, d’altro canto, proprio perché ci “costringe” a maggiori spazi di silenzio per il “distanziamento sociale” a cui ci obbliga, ci offre l’occasione per fermarci a riflettere e porci alcune domande, un pò più profonde, sul senso e sul perché di quanto ci sta accadendo. Sono domande che interpellano non solo i nostri valori di riferimento, ma anche la nostra vita di fede. Domande che finiscono, inevitabilmente, col chiamare in causa Dio. C’è chi lo fa intensificando la preghiera per invocare la forza e il coraggio per affrontare il difficile momento, chi per chiedergli conto del suo “silenzio” in questa dura lotta per sconfiggere il virus, chi ancora per avere una luce sulle cause che lo stanno inducendo a castigare così duramente l’intera umanità. Non sono pochi, infatti, coloro che interpretano la tragedia della pandemia come una punizione divina per le tante strutture di peccato che governano il mondo.
Il dibattito
Su quest’ultimo aspetto si è sviluppato un ampio ed acceso dibattito, per lo più condotto sui social e sulle pagine dei giornali, che ha visto intervenire intellettuali di ogni estrazione, scienziati, teologi e biblisti, ma anche semplici cittadini più o meno vicini alla fede e alla pratica religiosa.
Si è trattato di un dibattito nel quale, a dire il vero, non tutti sono riusciti a coniugare il rigore speculativo con il rispetto delle opinioni altrui. Mi sono sembrati intellettualmente scorretti, ad esempio, gli interventi di coloro che si sono affrettati a liquidare con risposte immediate, saccenti e apodittiche, l’interrogativo, doloroso e misterioso, di quelli che hanno collegato il virus al castigo di Dio, tacciandoli financo per fondamentalisti ignoranti e cattolici integralisti. Confesso che non sono riuscito a non provare una sgradevole sensazione di fronte all’arrogante presunzione di chi, credendo di possedere la verità tutta intera, non si è neanche concesso il beneficio del dubbio sulle proprie convinzioni, chiudendosi in maniera preconcetta a comprendere le argomentazioni degli altri. Mi viene da pensare che quanti, con “altisonanti” e “dotte” citazioni, hanno argomentato le loro tesi come se fossero verità rivelate, vivano già quello stato di “visione” e godano di quella “perfetta conoscenza”, che fanno si che le vie lungo le quali si manifesta la provvidenza divina siano a loro pienamente disvelate.
Un pò di umiltà e un pizzico di benevolenza nei confronti di coloro che non la pensano come noi, probabilmente ci aiuterebbe a vivere meglio il tempo dell’attesa del giorno in cui vedremo Dio «a faccia a faccia», quando cioè conosceremo pienamente e con assoluta certezza come – anche attraverso i drammi del male e del peccato, dei terremoti e delle epidemie – Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra (Cfr. CCC 314).
I castighi
Detto questo, per quanto mi riguarda, mi riesce davvero difficile pensare a Dio come ad un giudice spietato, pronto a punire il popolo infedele. Non riesco proprio, istintivamente, ad immaginare l’esistenza di un “Dio Untore” che si diverta ad infettare l’umanità, rea di essersi allontanata da lui.
Certo, talora alcune forme di catechesi, di predicazione o, in certi casi, la stessa prassi della confessione, possono avere veicolato una visione distorta dei castighi di Dio, col rischio di far perdere all’annuncio del vangelo la sua essenziale qualità di «buona notizia». L’espressione «ho meritato i tuoi castighi», che diciamo ogni qual volta ci accostiamo al sacramento della riconciliazione, può in effetti far passare l’idea di un Dio pronto a punire, di un giudice senza pietà e compassione verso chi ha sbagliato. Peggio ancora, può indurre a pensare che i mali che ci capitano siano da ricondurre direttamente ad un castigo divino.
E, tuttavia, proprio quell’espressione, se compresa nel suo più autentico significato, può essere intesa come la più grande esaltazione della misericordia di Dio. Il figlio che ritorna dal Padre dopo avere sperperato tutti i suoi beni con le prostitute (Lc 15, 11-32), è pienamente consapevole di non meritare nient’altro che essere trattato come uno dei suoi servi. Eppure il Padre non solo lo accoglie nella sua casa, lo reintegra come figlio, ma addirittura fa festa per il suo ritorno.
Quell’espressione che pronunciamo prima di ricevere l’assoluzione sacramentale, «ho meritato i tuoi castighi», può allora solo voler dire che in quel momento vogliamo accostarci alla misericordia di Dio con umiltà, senza arroganza e presunzione, proprio come il figlio della parabola, consapevoli che il perdono di Dio non è un atto dovuto che segue al nostro pentimento, ma frutto dell’amore libero e gratuito di un Padre che non gode per la morte del figlio peccatore (cfr. Ez 34,11), ma fa festa per la sua conversione e, pieno di gioia, gli riconsegna l’abito della vita.
Il peccato
Si tratta, insomma, di prendere coscienza che il peccato è davvero un virus letale, è un male tremendamente serio che ci allontana da Dio e da noi stessi. È solo in questa presa di coscienza che affiora nitida la consapevolezza dell’infinita sproporzione fra la nostra miseria e la santità di Dio, sproporzione che solo il suo perdono, la sua misericordia può “graziosamente” annullare: «L’unica proporzione che si crea fra l’anima e Dio – diceva don Barsotti – è precisamente quella che opera l’atto del nostro abbandono totale alla sua misericordia: un atto di abbandono che è come il precipitare nella morte. Non sono le tue opere, è questo abbandono che veramente ti salva, perché in questo abbandono ti raggiunge il perdono, la misericordia infinita e gratuita».
Dove sta, dunque, il castigo per il nostro peccato? Sta innanzitutto nel peccato stesso. È il peccato, in sé e nelle sue conseguenze, ad essere castigo in se stesso, proprio nella misura in cui ci separa da Dio: «Essere salvati – ebbe a dire Benedetto XVI parlando della preghiera di intercessione di Abramo per Sodoma e Gomorra – non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo, come dice il profeta Geremia al popolo ribelle: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio” (Ger 2,19)».
La misericordia
Ma c’è anche un castigo che viene da Dio? Certo che c’è. Il suo, però, è un castigo “speciale”: è il surplus di amore, la sovrabbondanza di misericordia nei confronti del peccatore, che fa scattare in quest’ultimo la “salutare” sofferenza per avere offeso un Padre che lo ama smisuratamente. Un “castigo” immeritato, dunque, perchè totalmente gratuito.
L’evangelista Luca riporta nel suo vangelo l’episodio di Pietro che per tre volte nega di conoscere Gesù: «In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E uscito pianse amaramente» (Lc 22,-54-62). Come mai, ci dicono gli esegeti, Pietro solo ora scoppia in pianto? Probabilmente fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un pò annebbiata, di avere fatto una cosa sbagliata, di essersi disonorato; di avere tradito un amico. Ma è solo quando incrocia lo sguardo di Gesù che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce di avere rinnegato un uomo che sta andando a morire per lui.
È l’incredibile sovrabbondanza di amore, di compassionevole attenzione verso chi non l’aveva meritata, che fa scattare in Pietro il dolore e il pianto per il suo peccato. È con la sua compassione che Cristo “castiga” Pietro. Ma è un castigo che lo purifica, proprio attraverso il dolore che nasce dall’incontro con Colui che, offeso e tradito, offre come contraccambio uno sguardo di amicizia e di sovrabbondante amore: «Volete castigare tremendamente, severamente un uomo, ma al fine di salvarlo e di rigenerare la sua anima per sempre? Schiacciatelo con la vostra misericordia, mostrategli l’amore, ed egli maledirà il suo operato. Quest’anima – scriveva Dostoevskij ne I fratelli Karamàzov – si dilaterà, sarà schiacciata dal rimorso e dall’infinito debito che d’ora in poi le starà dinanzi».
Il virus e Dio
Che Dio “c’entra” con tutto quello che stiamo vivendo in questo tempo di coronavirus, è una certezza che ci viene dalla fede; crediamo, infatti, che non c’è nulla nella creazione che sfugga alla sapienza, alla volontà e alla bontà di Dio.
Come “c’entra”, però, è qualcosa che penetra nel mistero stesso di Dio. Così come non possiamo “comprendere” in se stessa l’essenza di Dio, e quindi la sua infinita bontà e misericordia, allo stesso modo non possiamo pienamente capire i suoi progetti e le “strategie” con cui si manifesta il suo amore.
Per questo l’atteggiamento migliore di fronte alla sofferenza provocata da questa terribile pandemia, è quello dell’abbandono fiducioso in Dio, cogliendo questo tempo di prova – come ci ha ricordato papa Francesco – come un tempo per scegliere che cosa conta e che cosa passa, per separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. Un tempo, insomma, per reimpostare la rotta della propria vita verso il Signore e verso gli altri. Solo così andrà sicuramente bene.