Il lieto fine dell’incubo di Silvia Romano, cooperante milanese sequestrata quasi 18 mesi fa in Kenya e tornata in Italia, arriva nella fase più delicata dell’emergenza coronavirus come “un messaggio di liberazione collettiva”. Ma va letta anche come “una lezione per tutti noi”: perché a differenza di “questa giovane donna solidale, un pezzo di umanità” strappato a “un’intolleranza che vuole schiacciare le persone nell’odio”, noi “non siamo stati sequestrati, bensì protetti”. E’ la riflessione dello psichiatra Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute mentale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano, sentito dall’Adnkronos Salute.
“La risoluzione positiva di questo sequestro – ragiona l’esperto – ci dice che il nostro Stato, la nostra nazione, non lascia soli i suoi cittadini. Questo messaggio lo abbiamo avuto ogni volta che tanti connazionali sono stati recuperati in modo encomiabile da tutte le parti del mondo, ma lo abbiamo anche in questo periodo di pandemia”. Nella guerra a Covid-19, “tanto diversa da quella ricordata anche il 25 aprile” festa della Liberazione, “noi non siamo stati sequestrati – ribadisce Mencacci – ma semplicemente chiamati a essere responsabili, a saperci proteggere. E ora”, in questa battaglia che continua contro una minaccia invisibile e globale, “dobbiamo accettare di essere guidati sulle possibili vie di salvezza”.
Silvia Romano rappresenta dunque nell’analisi dello psichiatra “un simbolo di liberazione, ma anche di capacità di resistere a tante restrizioni. Per la sua libertà ha dovuto pagare un prezzo molto alto”. Nel suo “ritorno alla normalità, dopo un totale annichilimento e una manipolazione della sua volontà”, dovrà affrontare “ferite difficili da rimarginare e cicatrici che resteranno. Questo dobbiamo averlo presente”, sottolinea Mencacci, e da questo abbiamo il dovere di imparare: Silvia ha vinto contro “un nemico del nostro umanesimo. Noi ne stiamo affrontando uno diverso” e il suo coraggio ci indica la strada.