A quasi una settimana dalla liberazione di Silvia Romano, la giovane volontaria milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e rilasciata in Somalia il 9 maggio scorso, sono in corso a Fano, in provincia di Pesaro e Urbino, le perquisizioni dei carabinieri del Ros nella sede della onlus “Africa Milele”, nell’ambito dell’inchiesta della procura di Roma sul sequestro della ragazza.
Gli investigatori, al lavoro da questa mattina, hanno acquisito la documentazione relativa all’organizzazione per cui operava la cooperante, recuperando anche materiale informatico e la documentazione relativa alle attività della onlus. I carabinieri, in sede di perquisizione, avrebbero copiato alcuni hard disk e il contenuto dei telefoni. La Procura, infatti, vuole verificare se al momento del rapimento Silvia fosse stata messa in condizioni di svolgere le sue attività in sicurezza. La volontaria, infatti, si trovava in Kenya con l’associazione che si occupa di infanzia fondata da Lilian Sora, 42enne marchigiana, accusata dalla famiglia Romano di aver mandato la ragazza “allo sbaraglio”.
Dopo il rapimento della 25enne, la fondatrice di “Africa Milele” era stata ascoltata più volte dalle autorità e come riscontrato dai carabinieri del Ros in questi mesi, Silvia si sarebbe trovata in Kenya senza nemmeno un’assicurazione per malattia o infortunio. La responsabile, per giustificarsi aveva spiegato alle autorità che, fino al momento del rapimento della ragazza, “non c’era ancora stato il tempo materiale per fare la polizza”. Come spiegato da Sora, citata da Il Messaggero, la ragazza “non fu mai lasciata sola”, sottolineando che a pensare alla sua sicurezza c’erano due “masai armati di machete” ma che uno di loro si trovava al fiume al momento del rapimento.
La volontaria era stata sequestrata nel villaggio di Chakama da un commando di criminali comuni che, successivamente, l’avrebbero venduta ai miliziani di al Shabaab. La fondatrice della onlus aveva confermato che, fino al giorno prima della sua sparizione, Silvia era rimasta in compagnia del marito della donna e di un altro masai e che soltanto quel contrattempo avrebbe creato un “buco organizzativo”, in cui si erano infilati velocemente i sequestratori. Nei giorni scorsi, la fondatrice di “Africa Milele” avrebbe confermato anche di non aver mai pensato all’ipotesi di un rapimento o di un assalto violento.