Dal Vallone

Le battaglie di Vallelunga contro batteri e virus (di Alessandro Barcellona)

“Vivere vuol dire combattere continuamente”(Seneca)

Anno 1827

Un giorno e un luogo preciso: il 17 luglio a Vallelunga, nei locali della Cancelleria comunale di piano Ferrara (oggi piazza Iolanda Margherita). Alla presenza del sindaco Pasquale Giannò (farmacista, genero del dottor Santo Lo Forte, originario di Caltavuturo ma che esercitava qui in paese) si svolge un congresso medico indetto dal notaio Nicolò Cipolla cui vennero chiamati a relazionare i medici Liborio Audino (sindaco precedente), Vincenzo e Giovanni Criscuoli (tutti e tre di Vallelunga, gli ultimi due padre e figlio) e Salvatore Bonomo (oriundo di Alia ma medico a Villalba). Tutti presero la parola; Vincenzo Criscuoli (che era anche sacerdote) fu l’estensore della relazione finale. I quattro professionisti erano stati convocati su richiesta di cittadini preoccupati per rispondere ad un interrogativo preciso: quali fossero le origini, gli sviluppi e la pericolosità di un morbo epidemico che dava segnali di recrudescenza nella zona del vallone e provocava diverse vittime. Che diavolo stava succedendo? Peste? Colera? Tifo? Tubercolosi? Malaria? In quella relazione si descrive un paese che non riconoscereste: acque stagnanti nel rigagnolo a valle del paese, concimaie a cielo aperto, fumazzari che provocavano i sintomi più terribili, la gente che moriva di fame. La cosa allarmante è che “febbre pudrida e verminosa, gastrica biliare, pleurite, angina e febbre lenta”… sono definiti dal dottor Bonomo “morbi inusuali per quel tempo”. La popolazione era pertanto – giustamente – preoccupata. Il dottor Liborio Audino disse che “il principale agente della vita è l’aria: senza di essa non v’è vita”… e che “le altre infermità succedevano acute e croniche per la scarsezza del vitto”. Citando Ippocrate, Giovanni Criscuoli elencò filosoficamente le “sei cose non naturali produttrici delle malattie: i cambiamenti delle stagioni, l’umidità estrema dell’inverno, l’incostanza della primavera e dell’estate, le passioni dell’animo conturbato dalla penuria dei tempi, la meno comodità della vita”. Se non era l’inferno, poco ci mancava. Perdippiù erano quasi tutti morti di fame! E mi sovviene la descrizione che centocinquant’anni dopo Rosolino La Piana fa del quartiere “Santa Luisa” intersecato da quel torrente: “mucchi di rifiuti d’ogni sorta, stallatico, carogne di cani e gatti, scarpe vecchie, indumenti vecchi, laceri e sporchi, provocavano un puzzo fetido e orrendo che si diffondeva nei quartieri circostanti. Quando poi, alle prime piogge autunnali, l’acqua stagnava in quel ciarpame orrido trasformandolo in vomitevole sentina, allora si aveva l’impressione di trovarsi in una bolgia infernale. Nuvoli di moschette e di zanzare anofeli diffondevano tifo, paratifo, melitense e malaria che facevano morte, anemia e tisi”.

Anno 1837

Passano solo dieci anni e succede l’apocalisse. Il batterio del colera (“cholera morbus”), che stava sconvolgendo mezzo mondo arrivò a Vallelunga (tecnicamente è stata un’epidemia): diarrea profusa, acidosi, crampi muscolari, vomito, disidratazione e cianosi. Per ricercare aria salubre e mettere in quarantena i nostri compaesani, venne scelto come lazzaretto (di manzoniana memoria) l’altura del casamento di Magazzinaccio chiedendo il permesso a Giuseppe Lanza di Scalea, illustre proprietario del feudo (ma fu facile ottenerlo, lo gestivano i due Criscuoli!), e il sindaco Vincenzo Parisi ne nominò direttore proprio Nicolò Cipolla che tanto sensibile si era mostrato dieci anni prima ad organizzare quel congresso. Privilegiati, pertanto, gli abitanti di paesi con maggiore altitudine, tipo Marianopoli, e chi viveva nelle campagna: la parola araba Susafa vuol dire “monte della salute”… e ci sarà un motivo! Tante furono le vittime registrate a Vallelunga, anche illustri, e alcune seppellite dove capitava. Il 7 luglio lasciava questo mondo l’avvocato Emanuele Giannò, venuto da Palermo in soccorso dei genitori (il padre era medico e si salvò), sepolto di gran corsa nella nuda terra nei pressi della Catena. Il 31 luglio toccò Teresa Audino, la figlia del dottor Liborio (morto qualche anno prima). Il 3 settembre volò in cielo la moglie di Giuseppe Traina, il riccone di Vallelunga. Il 20 settembre fu il giorno dell’ultima vittima: il padre del notaio Nicolò Cipolla, Pasquale. Tra gli stranieri di passaggio annovero Agata Carello, moglie del marchese di San Gabriele: come l’avvocato Giannò venne seppellita in una fossa alla catena ricoperta da un’abbondane strato di calce. E proprio la calce divenne preziosissima materia. L’anno dopo, ad emergenza finita, il barone di Castelbelice, Gaetano Consiglio, reclamò al sindaco di Vallelunga la restituzione di un certo quantitativo requisitogli dalle nostre autorità. Il barone, nel ricorso, accusa il sindaco Parisi di aver usato il prezioso materiale non per disinfettare i luoghi pubblici ma per averne fatto mercato privato. Erano comprese nel bottino anche quattro balate di zolfo che, suddivisi in pacchetti e accostati al nitro, venivano fatti bruciare nei locali al chiuso della Catena. Toccante la testimonianza del becchino di allora, Calogero Lombardo di Mussomeli, che non smetteva di sanificare così i locali del piccolo fabbricato ogni volta che un ammalato vi sostava. Sottovoce vi rivelo anche che il sindaco Parisi si trovò poi a essere condannato dal Regio giudice di Villalba con la precisa contestazione di essersi appropriato di medicinali e del carbone destinati al lazzaretto e da lui rivenduti (lo dice la sentenza) al mercato nero! Raro esempio di amministratore infedele!… E la cripta della chiesa madre si riempì di cadaveri: tra il 15 giugno e il 3 novembre del 1837 morirono di colera ben 298 persone, con punte anche di quattordici al giorno… una strage! Si dovettero aprire gli ingressi di quelle delle Anime Sante, dell’Oratorio del Rosario e del Crocifisso… fino al 27 luglio, quando di fretta e furia venne inaugurato il cimitero comunale e consentire il giorno dopo a Leonardo Giambrone di varcarne per primo la soglia.

Anno 1867

Non passano che trent’anni e di nuovo il colera bussò non invitato alle porte di Vallelunga. Troppo recenti erano le immagini di morte e sofferenza nei sopravvissuti: ci fu una caccia all’untore. Alcuni vallelunghesi – in particolare – vennero etichettati come responsabili della diffusione della malattia e i più intemperanti cercarono di sopprimerli (gli scritti di Alessandro Manzoni e Gesualdo Bufalino irrompono a questo punto con la “Storia della Colonna infame”e la “Diceria dell’Untore”; ve ne consiglio la lettura). In particolare, don Turiddru nasca manciata (al secolo Salvatore Giannò, chiamato così perché affetto da un cancro al naso) venne indiziato di aver portato il colera in paese e accusato di infettare i compaesani (a questo punto aggiungo un altro consiglio di lettura: la novella “Soffio”di Luigi Pirandello… bellissima!). Egli – agrimensore – era famoso perché aveva ucciso a Campofranco (dove aveva preso casa da sposino) un collega colpendolo allo stomaco con la punta di ferro del bastone dello squadro agrimensorio (guarderò con occhio diverso i geometri d’ora in poi!). Forte di questo gesto violento e della sua statura elevata, seppe contrastare i suoi aggressori anche perché manesco e temuto. Freschi freschi di laurea, i dottori Rosario Moscati, Giuseppe Cipolla e Calcedonio Pensovecchio vennero reclutati per assistere gli ammalati: quest’ultimo giovanissimo (27 anni!) venne nominato dall’Intendente della Valle (prefetto) direttore di Magazzinaccio, eletto a lazzaretto provinciale. Ed è interessante leggere la sua pubblicazione intitolata “Osservazioni sul cholera morbus”, ricca di statistiche e notizie su quell’esperienza. La masseria divenne così un brulicare di medici, infermieri, cappellani: tutti costoro si prendevano cura di centinaia di infermi provenienti da ogni parte della provincia. I nostri tre giovani coraggiosi mandati in quella trincea di guerra contro il malefico morbo vennero poi insigniti della medaglia di bronzo di benemeriti della salute pubblica (decreto del 18 maggio 1869). I numeri ci dicono che fu una strage ben più grave della prima: dal 4 giugno al 29 luglio morirono 257 vallelunghesi con la punta di ventidue decessi registrati il giorno 22 luglio (ne rimane traccia nel cenotafio della moglie di don Cocò Audino, la baronessa Vincenza Giarrizzo di Pietraperzia). Morì di colera pure il notaio Cipolla, quello che aveva organizzato il congresso del 1827 e che era stato nominato direttore del lazzaretto durante l’epidemia precedente: si portò appresso la figlia Maruzzeddra e il nipotino Nicolò Tagliarini in 48 ore (la tragedia di casa Tagliarini troverà felice sbocco un ventennio dopo con l’arrivo alle Anime Sante del simulacro di San Michele offerto dal sopravvissuto farmacista don Domenico… e un santo armato di spada ha il suo perché in questi momenti!). Non rinvengo il volume dei decessi del secondo semestre del 1867 per fare una ricerca completa ma… a occhio e croce vennero a mancare almeno cinquecento vallelunghesi nello spazio di un’estate!

Anni 1918-1920

I momentacci continuarono. Dopo due tragici appuntamenti con il batterio killer, non poteva non fare la sua apparizione il virus killer. Subito dopo la prima guerra mondiale un’influenza letale si sparse per il mondo così rapidamente che decimò la popolazione mondiale (il nome tecnico è “pandemia”). Siccome se ne occupò per prima la stampa spagnola non soggetta a censure belliche, va da sé che febbre alta (anche emorragica), frequenza cardiaca bassa, tosse convulsa, difficoltà a respirare (noi lo chiamavamo “grùappu”, dal francese “grippe”), polmonite e broncopolmonite ebbero un nome: “spagnola”. Complice favorevole della diffusione (e qui ritorniamo al congresso medico del 1827) furono la guerra di trincea, la diffusa malnutrizione, i sovraffollati campi medici e ospedali, la scarsa igiene. Ne potrebbero riferire due grandi medici di allora: Gaetano Gugino e Tommaso Luigi Moscati (è il figlio del dottor Rosario). A lu dutturi Gigiu specialmente, reduce dai campi di guerra, adesso toccava combattere un nemico ben più invisibile e decisamente letale. La spagnola fu anche selettiva: quelli robusti e di buona complessione fisica non soccombevano; quelli che mangiavano regolarmente sopravvivevano (curioso caso di pandemia antidemocratica e discriminatoria); tutti gli altri passavano dei guai. Mi tornano utili le parole con cui Aurelio Sorrentino descrive lu vaddruni ai primi del Novecento: “d’estate vi scorreva si e no un rigagnolo di acqua verdastra e limacciosa che formava conche e piccoli ristagni ove la malaria prosperava minacciosa, sì che Vallelunga era considerata ufficialmente zona malarica ed il chinino di Stato era distribuito gratuitamente dai medici del paese. Con l’avvento del DDT americano la malaria è stata debellata, ma già allora il fumo delle fornaci di laterizi, adagiandosi nel fondovalle spezzava l’aria e la malaria secondo la credenza paesana”. Una ricerca per una statistica dei decessi di quel periodo si fa più difficile: l’archivio parrocchiale e quello comunale non indicano i motivi del decesso (si cominciarono ad usare i comodi prestampati) per cui non mi diverto più a leggere quelle belle relazioni, magari scritte in latino dove il parroco di turno o il sindaco di turno si lasciavano sfuggire particolari utilissimi a chi fa ricerca: “Il tot giorno è morto Tizio di tot anni!”Punto e a capo… avanti il prossimo! Però un tentativo possiamo farlo ma con una precisazione: fra guerra e disordini non tutti i morti venivano annotatati perché era più urgente sbarazzarsi tempestivamente dei cadaveri che compilare inutili carte (più che pandemia fu un pandemonio!). Se facciamo una media dei decessi fra periodo prebellico (1914), grande guerra (1915-1918) e postbellico (1919-1921), i morti – di spagnola e non – partono da punta minima di 78 nel 1917 a una punta massima di 174 nel 1918, seguiti da 126 morti nel 1919 e 116 nel 1920… il picco venne raggiunto con la fine della prima guerra mondiale. Anche questa, una lunga e silenziosa strage che ha falciato intere famiglie. Nel cercare di salvarsi e di evitare il contagio, si stava isolati, ci si metteva in quarantena, si improvvisavano mascherine per il volto. E si cercavano le alture e le case in campagna in posizione ventilata. Gettonatissima divenne la zona dell’incantevole casa a torre di contrada Manca convertita in sanatorio… perché a noi vallelunghesi il buon gusto non manca, neanche quando sembra tutto perduto!

Anno 2020

Oggi le cose sono cambiate: il maleodorante torrente è stato coperto; c’è un depuratore; il bagno e l’acqua corrente ce l’abbiamo tutti; nessuno trascura l’igiene personale e della propria casa; e tutti mettiamo un boccone sotto i denti ogni giorno… non ci sono più le condizioni per essere infettati da batteri malefici o per favorire il contagio di virus assassini. Nulla di più sbagliato. Oggi, anzi, tutti ci siamo dovuti ricredere: il conquistato benessere non ci rende invincibili! Mi resi conto dell’importanza e della gravità del fattaccio in cui il mondo si era venuto a trovare dal febbraio di quest’anno incontrando i due dottori del paese: Francesca Lombardo e Giuseppe Montesano. Indossano sempre guanti di lattice e portavano costantemente una mascherina sul volto. Trasmettono un bell’esempio di prevenzione e un senso di protezione, ma anche di consapevolezza della gravità e della preoccupazione che man mano si è impossessata dell’umanità. Il nemico di oggi si chiama Codiv-19, ed è un virus (in latino vuol dire “veleno”) che non ha niente di umano anzi è contro l’umanità; si trasmette da uomo a uomo e scatena una tempesta all’interno del nostro organismo e delle nostre cellule. Ci si contagia anche attraverso un sospiro, un abbraccio, una stretta di mano, un bacio!… sicuramente è un virus più democratico della spagnola e non è discriminatorio perché riguarda tutti, poveri e ricchi, grandi e piccini, chi vive ad altitudini elevate e chi abita in zone di mare (con una predilezione per i soggetti più fragili) ma è certamente antiromantico! I sintomi più comuni del coronavirus sono febbre, stanchezza e tosse secca. Alcuni possono presentare indolenzimento e dolori muscolari, congestione nasale, naso che cola, mal di gola o diarrea. Questi sintomi sono generalmente lievi e iniziano gradualmente. Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale. Dalla (non tanto) lontana Cina questa pandemia sta mutando per sempre i nostri orizzonti, il nostro modo di relazionarci gli uni con gli altri, la nostra visione della vita stessa. L’emergenza sanitaria (ma anche sociale ed economica) che stiamo vivendo è particolarmente grave prima di tutto perché il morbo risulta anche letale e si propaga con una velocità di contagio impressionante e poi perché sta influenzando l’economia scatenando una crisi finanziaria e di lavoro senza precedenti. Siamo costretti così a vivere come se ci venisse a mancare l’ossigeno, privi di due cose fondamentali: il contatto sociale che ci consente di vivere relazioni umane (perché non ci possiamo definire umani senza rapporti sociali!) e della sicurezza e della solidità economica che ci consente di campare dignitosamente (perché mancando il sostentamento viene a mancare la dignità dell’uomo!). Oggi, più che mai, veniamo chiamati a superare la prova suprema, la peggiore rispetto a quelle che si sono avvicendate nel nostro passato. Fino ad ora Vallelunga si è comportata in maniera eccellente e questo fa ben sperare. Seguiamo le prescrizioni di legge, siamo prudenti cauti e guardinghi, sì da scongiurare quei terribili momenti che purtroppo altre parti d’Italia e del mondo stanno vivendo tragicamente. E siamo loro vicini con il cuore.

N.B.: già potremmo programmare la fine della pandemia del coronavirus (perché finirà!) e so cosa proporvi per celebrare il momento. I vicini villalbesi, noti festaioli, hanno fatto baldoria alla grande dopo l’epidemia di colera nel 1837: una mega scampagnata ospiti del marchese di Villalba alla Roba e dove il notaio Ignazio Castrogiovanni (vallelunghese!), che lì lavorava e fu anche loro sindaco, organizzò una divertentissima declamazione di un suo componimento poetico intitolato “Lu testamentu di lu porcu”. Lesse in pratica ad un pubblico ormai rincuorato e fra le risate generali, le ultime volontà di un maiale prendendo in giro la società villalbese di allora: un vero spasso! Le campagne non ci mancano e neppure i carnezzieri, le braci sono sempre pronte… si faccia avanti il poeta! (Alessandro Barcellona)

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