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I Fatti del Grillo parlante: “Martedì Grasso, i sfingi e Zorro”

Alfonso Grillo

I Fatti del Grillo parlante: “Martedì Grasso, i sfingi e Zorro”

Mar, 25/02/2020 - 17:00

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I MIEI RACCONTI BREVI

“Mamma!…sono cinque anni che mi vesto di zorro”
“Ma ti sta troppu bellu, pari u figliu di Don Diego de la Vega”.
Quando ero fanciullo due erano le certezze, le cose imprescindibili, nel periodo di carnevale.
La prima, la più importante: “i sfingi” all’improvviso. Pomeriggio a casa della nonna o della zia di turno, all’improvviso a qualcuno “cci veni u spinnu” ed esprime il suo ghiribizzo a voce alta, quasi senza rendersene conto:”certu, si cci fossiru, du belli sfingi mi mangiassi”. All’improvviso qualcun’altra ribatte: “e cchi cci voli a falli”. All’improvviso si materializzano, come per incanto, tutti gli ingredienti necessari per farle. Niente Bimby, niente impastatrici, niente frullini, tutto impastato a mano, dentro una “pignata” grande, dove l’impasto veniva lasciato a lievitare, coperto da una tovaglia, accanto al termosifone. Nel momento topico, quello della frittura, “u sciauru” si diffondeva per tutto il condominio; e come di consueto, puntuale, “tuppiava” la vicina: “ma cchi è stu sciauru? Stati friinnu i sfingi?”. “Si, fu na cosa accussì…all’improvviso, i voli assaggiari?””Si grazie, ma giusto due, pirchì mi fannu mali”.


La seconda delle certezze, dei fanciulli della mia generazione nel periodo carnascialesco, era vestirsi di Zorro (dall’età di 6 anni fino al compimento del decimo anno), non c’era scampo, nessuna via d’uscita. Le mamme tutte, bramavano di vedere il proprio figliolo nei panni dell’eroe mascherato. Il vestito non veniva acquistato in un negozio, giammai, ma veniva realizzato dalla sarta di fiducia, quella a cui si rivolgeva tutto il parentado per qualsiasi lavoro di sartoria, dalla semplice “accurzata” dei pantaloni fino alla realizzazione di un abito da cerimonia (si perché allora essere sarta o sarto significava essere in grado di creare un abito). “U vistitu di carnalivari” veniva realizzato con dovizia di particolari, il tessuto acquistato da “Canicattì& Cartarasa”, per il reperimento di lustrini, fiocchetti e bottoni vari scattava una ricerca snervante, quasi maniacale presso “Savoja” ed in tutte le mercerie del centro storico. Ma il risultato era appagante, le mamme mostravano con orgoglio i vestiti di carnevale, con dentro i figli, realizzati con tanta dedizione.


Ma, il momento più importante era l’appuntamento con il fotografo, tradizione ormai caduta in disuso da molti anni: i genitori portavano il proprio pargolo “conzato” nella “putia” del fotografo, per immortalare “l’opera”, affinché i posteri un giorno potessero goderne.
Fatta la foto di rito, seguiva l’immancabile passeggiata/passerella “‘a chiazza”, per poi recarsi a casa di parenti per le tradizionali “sfingi” all’improvviso. L’odore di fritto impregnava talmente tanto il costume di carnevale, che, una volta conservato, lo proteggeva per un anno meglio della naftalina. Dodici mesi dopo, una volta aperta la scatola contenente il manufatto, si sprigionava ancora intatto “u sciauru di sfingi”…all’improvviso.
A scuola, con i miei compagnetti, eravamo accomunati dalla stessa tragedia: non odoravamo di sfingi, bensì eravamo delle “sfingi ccu i pedi”.
Grazie mamma per le estenuanti ore di prove dalla sarta (indimenticabile la tortura delle prove per il vestito di ammiraglio, alla tenera età di 4 anni)…”addiri ca” ancora non esisteva il telefono azzurro.