Ho molta simpatia per i cinesi. Sono lavoratori indefessi, studiosi accaniti, dotati di una volontà di ferro. Forse per questo non sono vittime di razzismo, vivono appartati nei loro quartieri, si fanno gli affari propri, non disturbano. Mi domando perché gli africani, in linea di massima, non vengano accolti con tanta cordialità nel nostro Paese. E una risposta c’è. Non ho mai visto un giallo bighellonare per strada e chiedere l’elemosina.
Dalle mie parti, nei dintorni di Bergamo, fino a qualche anno fa c’era un bar, sembrava un cimitero che, a un certo punto, fu ceduto a una famiglia di pechinesi. All’improvviso, quel locale in procinto di fallire si rianimò. Oggi non chiude mai nemmeno durante le feste raccomandate. È più frequentato del caffè della stazione. Vende tabacchi, giornali, pasticcini, bottiglie di vino pregiato. Insomma smercia di tutto con una gentilezza orientale, non con le maniere brusche tipicamente orobiche. È un esercizio modello, che immagino vada a gonfie vele. Sempre pieno di gente soddisfatta. La sua operosità fa riflettere sul contributo che i cinesi danno alla economia italiana a volte asfittica.
Racconto un altro episodio di cui sono stato protagonista. Tempo fa ero direttore del quotidiano Indipendente. Il mio amico Giorgio Forattini mi telefonò e mi disse: «Conosco una ragazza cinese che studia all’università di Bologna e vorrebbe guadagnare qualche soldo per mantenersi. Tu puoi aiutarla?». Risposi: «Scusa, ma come? Avere una cinese in redazione è come avere un rinoceronte in casa. Non vedo quale ruolo sarebbe utile affidarle se non quello della donna delle pulizie». Replica di Forattini: «A me interessa che tu la riceva per dimostrare che mi sono occupato di lei, poi fa ciò che ti pare». La ricevetti. Era una ragazza bella e alta, indossava abiti tradizionali della sua terra, parlava perfettamente la nostra lingua. Non sapendo bene che proporle, le chiesi: scrivimi un pezzo sulla scuola primaria della tua patria, di cui noi non sappiamo niente. La signorina, che aveva il nome più corto del mondo, I, non si scompose. Si ritirò nella stanza dei collaboratori, riuscendone con tre fogli dattilografati che mi porse con un sorriso. Lessi il testo e rimasi sconcertato: erano vergati da Dio, non un errore, prosa limpida. Mentre l’assunsi pensai: hanno vinto loro, i cinesi, sono più intelligenti di noi. Non sbagliavo. Rimase con me un biennio, svolgendo la professione in maniera impeccabile. Quando la portavo con me in un ristorante alla moda di corso Venezia, a Milano, il chiacchiericcio dei commensali, che ci osservavano mentre attraversavamo la sala in cerca del tavolo, si sospendeva.
Non si udiva più nemmeno il tintinnio dei bicchieri. I clienti zittivano e guardavano I che con incedere elegante mi seguiva. Era pure molto bella, benché con un fisico morfologicamente diverso da quello delle nostre donne. Al termine degli studi accademici, ella tornò in Oriente, precisamente a Hong Kong, dove le fu offerto il posto di caporedattore della maggiore televisione locale. Mi telefonò un paio di volte per salutarmi, poi persi ogni contatto.
Ho narrato questa storia stupefacente per giustificare il fatto che non sono meravigliato del successo che conseguono le persone dagli occhi a mandorla nel mondo intero. Immagino che la piaga del virus Corona sarà presto sanata, sebbene certe notizie che giungono dal Sol Levante siano inquietanti: si afferma che la popolazione si nutra di insetti e animali vivi, ingurgitati senza precauzioni. Tale pratica mi fa orrore, ma non dimentico che nelle valli bergamasche fino al 1970 i miei conterranei si nutrivano di rane e di piccoli volatili, nonché di anguille. Ignoro le cause del diffondersi del morbo che sta terrorizzando milioni di uomini e donne, ma quand’anche esistesse l’abitudine di divorare povere bestie, non avremmo diritto di deplorare i cinesi. Cinesi siamo stati pure noi, nel nostro piccolo.
(di Vittorio Feltri, fonte liberoquotidiano.it)