Un siciliano che non gesticola, non sottolinea il suo discorso con le mani, con la mimica o i movimenti del corpo: una anomalia antropologica della comunicazione politica contemporanea, che nel discorso di fine anno del Presidente della Repubblica è emersa con la forza dirompente di una sfida.
La sfida alla politica urlata quanto povera di idee e di contenuti, alla comunicazione che affida alla battuta fulminante la capacità di “bucare il video” e imporsi nella memoria degli spettatori a prescindere dal senso di quello che si dice, la sfida alla dinamica dei corpi scomposti di troppi esponenti politici e istituzionali che lanciano le crisi di governo dalle discoteche sulla spiaggia dimenandosi un po’ sbronzi di fronte a cubiste leopardate.
La sfida della forza tranquilla che una democrazia deve avere se vuole essere autenticamente tale, garanzia di riconoscimento della dignità di tutti, senza prevaricazioni né intolleranze. Il che non significa neutralità rispetto ai nodi del dibattito politico, o cerchiobottismo facile di chi vuole consenso evitando il conflitto, che della democrazia è sostanza e sapore.
È la sfida della differenza tra la Politica e la demagogia, tra il senso delle istituzioni e il populismo, tra gli statisti e i mestieranti, quella che trova il suo archetipo e il suo leader naturale nel Presidente Mattarella, che nel suo discorso di fine anno, con lo stile ineccepibile di un eloquio equilibrato e lineare, non ha risparmiato critiche anche pesanti ai vizi del nostro sistema politico, mediatico, alle ingiustizie della società in cui viviamo, dentro una cornice forte di positività, di fiducia, di speranza possibile, più impegnativo per tutti rispetto ad ogni consolatoria lamentazione. Senza evocare paure, senza enfatizzare le insicurezze, senza indicare nemici.
Senza muovere le mani, che comunicavano stando ferme la serenità determinata di un uomo che pensa quello che dice e lo vive nella sua funzione pubblica e privata, sorridendo o rimproverando solo con l’espressione dello sguardo, senza bisogno neppure di alzare un sopracciglio, ha affidato tutto alla sostanza semplice e inequivocabile delle proprie parole, misurate e concrete, comprensibili a tutti e capaci di dare rappresentanza alle ansie e alle speranze di ciascuno, in un discorso che si è sviluppato tutto intorno all’unica parola che stava esattamente a metà: insieme.
È questo il compito di chi guida la Repubblica, di chi rappresenta lo Stato come patrimonio comune di diritti e garanzie contro le ingiustizie e le disuguaglianze, di chi deve essere capace di valorizzare la positività e di reinvestirla nell’impegno di tutti per uscire dalla crisi, senza sconti né omissioni, ma sapendo rispettare le responsabilità di tutti, anche quando le critica.
La prossemica è la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione, verbale e non verbale, e nella comunicazione politica contemporanea, mediata dai social, è diventata una componente fondamentale nella identificazione del “pubblico” con i leader, o, tradizionalmente, degli elettori con gli eletti, giocando continuamente al ribasso per sembrare “uno di noi”, al peggio.
La prossemica del Presidente, nella sua anomalia assoluta rispetto alle mode sbracate e alle tendenze “pop” dei politici di casa nostra, comunica ancora a chi lo ascolta e lo osserva una sicurezza non da poco: lo Stato c’è ancora, il Paese ha una guida autorevole, competente, eticamente indiscutibile, stimata e riconosciuta in tutto il mondo, che crede nelle risorse e nelle qualità degli Italiani, ma non dimentica di richiamarli continuamente all’impegno per uscire insieme dalla crisi, per trovare soluzioni condivise ai problemi, per essere all’altezza della nostra storia e della nostra cultura, e della bellezza che nei secoli abbiamo prodotto, come singoli e come popolo.
E lo fa senza retorica, senza trionfalismi o toni consolatori, facendosi sentire vicino senza bisogno di pacche sulle spalle, senza ammiccamenti, senza furberie mediatiche. E senza uscire dai limiti dei suoi compiti istituzionali di arbitro super partes, non di attaccante di sfondamento.
La prossemica della democrazia è fatta di questo rigore comunicativo, di questo rispetto della funzione morale, prima ancora che sociale, della politica: “La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”. E’ in questa frase del discorso di fine anno il circuito virtuoso che la buona politica deve essere capace di costruire per fare vivere le istituzioni nell’esistenza quotidiana di ognuno di noi, che di speranze forti da realizzare oggi ha bisogno più che mai.
L’orizzonte di futuro di una politica intesa in questi termini è affidato al messaggio del nostro astronauta, che il Presidente ha rilanciato agli Italiani: “La speranza consiste nella possibilità di avere sempre qualcosa da raggiungere”.
Questa speranza ci interroga, ad uno ad uno, non possiamo delegarla, non possiamo astenerci, non possiamo ometterla dalla quotidianità della nostra vita. È la sostanza della politica come agire collettivo ed è la qualità della democrazia, che ci fa respirare le fatiche di ogni giorno nell’orizzonte ampio del futuro.
Perché nel nostro futuro il carnevale mediatico dei politici di cartapesta non lascerà nessuna eredità positiva.