Cassazione conferma pena di 22 anni per “l’untore” nisseno. Per la corte: “Talluto agì con dolo ma contagio non fu epidemia”

Valentino Talluto “con la sottoposizione ai test e con i conseguenti consulti medici ebbe piena consapevolezza della sua malattia e del rischio di contagio per pratiche sessuali non conformi a determinate indicazioni che compiutamente gli furono fornite” e quindi “agi’ con dolo, seppure, come affermato dalle sentenze di merito, nella forma del dolo eventuale”. Cosi’ la Cassazione spiega perche’, il 30 ottobre scorso, decise di dichiarare “irrevocabile ed eseguibile” la condanna dell’imputato a 22 anni di reclusione – accusato di lesioni gravissime per aver contagiato con il virus Hiv decine di partner – senza “alcuna attenuante” vista sia “la gravita’ dei fatti” che “l’assenza di significativi segni di resipiscenza”, trasmettendo gli atti alla Corte d’assise d’appello di Roma affinche’ valuti anche un aumento di pena, con un nuovo vaglio riguardante 4 episodi da cui Talluto era stato assolto in appello
Nelle 20 pagine di motivazioni depositate oggi, la prima sezione penale della Suprema Corte chiarisce poi perche’, nel caso in esame, non puo’ essere contestata l’imputazione di epidemia, come gia’ affermato nei giudici di merito, sulla quale invece verteva il ricorso presentato dalla procura generale della Capitale. “Quel che difetta nel caso in esame – osservano i giudici del ‘Palazzaccio’ – e’ proprio l’evento tipico dell’epidemia, che si connota, come hanno precisato le sezioni unite civili della Corte di Cassazione, per diffusivita’ incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata”. L’imputato, invece, si legge nella sentenza, “contagio’ un numero di persone, per quanto cospicuo, certo non ingente e cio’ fece in un tempo molto ampio, in un arco di ben nove anni”: secondo la Corte, “l’ampiezza del dato temporale in cui si e’ verificato il contagio, in uno col fatto che un altrettanto cospicuo numero di donne, che pure ebbero rapporti sessuali non protetti con l’imputato, non furono infettate, militano nel senso della carenza, nella vicenda in esame, della connotazione fondamentale del fenomeno epidemico, che giova a qualificare la fattispecie in termini di reato di pericolo concreto per l’incolumita’ pubblica, ossia la facile trasmissibilita’ della malattia ad una cerchia ancora piu’ ampia di persone.
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