“Il diavolo è un direttore d’orchestra” che continua a far divampare, attraverso un ramificato e capillare depistaggio, quelle fiamme accese nel lontano 1992.
È iniziato così lo spettacolo “I Traditori”, coraggiosamente scritto da Salvo Palazzolo e Gery Palazzotto, andato in scena nella cornice del Parco Archeologico Demaniale Palmintelli a Caltanissetta.
Le parole sgorgavano fluide e intense dalla bocca di Gigi Borruso mentre di fianco, imponente, dominava il palazzo di giustizia. Quel grande edificio nel quale, da ben 27 anni, vanno in scena alcune delle più importanti pagine del Maxiprocesso contro i mandanti degli omicidi di Falcone e Borsellino.
A essere discusso, ancora oggi, non è “chi” materialmente ha ucciso i due giudici. Quello è un fatto noto. Una storia ricostruita attraverso le tracce – in questo caso non occultate – rinvenute nei pressi degli attentati.
La vera domanda, piuttosto, è “chi” ha commissionato le stragi.
Una domanda che avrebbe una risposta se fosse ricostruita tutta la trama della vicenda. Una rete alla quale, però, mancano ancora tante, troppe maglie.
Quella che emerge, nello spettacolo – inchiesta diretto da Alberto Cavallotti, è una ricostruzione così fantasiosa da sembrare irreale. Eppure le trascrizioni degli atti giudiziari e le testimonianze dei collaboratori di giustizia rendono questa vicenda amaramente reale.
Tanti sono i punti ancora oscuri che lasciano perplessa la società civile e non si tratta soltanto di misteriose sparizioni di PC dagli uffici o di telefonate avute con soggetti ignoti ma anche di un tempismo che, nel monologo, viene definito come “eccezionale” e quasi paradossale.
Per risolvere l’enigma i due autori hanno suggerito due soluzioni: una pratica e una ideologica.
La prima, quella che si percepisce dagli elementi di prova presentati in aula, invita a “seguire i soldi”. Il potere economico e politico di chi, dagli inizi degli anni ’80 ad oggi, continua a soffocare la ricerca della verità.
La seconda è un invito a “non dimenticare”, non rinunciare a voler capire chi ha tramato contro l’intero popolo italiano. Un dovere civico che non deve essere svolto soltanto da magistrati o giornalisti ma di cui tutti dobbiamo sentirci responsabili. Un desiderio che deve essere impiantato anche alle nuove generazioni che ancora siedono sui banchi di scuola.
“Il deserto in fiamme di via D’Amelio”, divampato dopo quello di Capaci, non ha fatto altro che aumentare i tentativi di occultamento e gli appelli alla giustizia.
“Chi ha suggerito a chi” di mentire o di trafugare prove?
Chi ha armato la “macchina della menzogna”?
Chi è l’uomo che è riuscito a mimetizzarsi al punto tale da apparire tuttora invisibile a tutti?
Ciò che resta è un cratere ancora rovente sul quale bruciano le domande di chi, dopo più di un quarto di secolo, con sofferenza continua a cercare la verità.
La principale sensazione di amarezza, però, si avverte quando si compie un passo indietro e si osserva la vicenda dall’esterno. All’interno della cornice delle stragi e di quelle pagine di storia italiana così buie si nota che non si può mai parlare “al singolare”. Il diavolo, come un burattinaio, ha comandato il suo esercito di traditori. Un plotone che, dalla “cupola” dei paesini di montagna ai seggi dei palazzi del potere, gli ha permesso di portare avanti una trattativa ignobile. Un gioco di ruolo combattuto con abile strategia nel quale le mosse, effettuate “attimi” prima che intervenissero le indagini ufficiali, hanno consentito di primeggiare in importanti battaglie.
Dopo 27 anni, purtroppo, una certezza rimane saldamente valida: la società ha imparato ad accettare le bugie come verità.