Caro Verna, non ho assolutamente alcun titolo per mettere becco nello scambio di opinioni tra il mio amico Vittorio Feltri e lei che è il presidente dell’ Ordine nazionale dei giornalisti oltre che palesemente una persona civile.
Ammesso che lo sia mai stato, non sono più un giornalista da quando il consiglio regionale del Lazio mi tolse dall’albo. Lei forse non ricorderà. Era successo che avevo partecipato a uno spot pubblicitario in televisione.L’ allora segretario del consiglio regionale mi convocò, e questo perché un giornalista non deve e non può contribuire a una promozione pubblicitaria. Io che sono un bravo ragazzo sono andato nella sede romana del consiglio regionale, con cui mai in trent’anni di vita professionale avevo avuto a che fare.
C’ era un gruppetto di persone, di cui non conoscevo nessuno. Assolutamente nessuno.
Io li guardavo e loro guardavano me. Alla domanda se fossi stato pagato per quello spot, risposi «Ci mancherebbe altro!». Dopo di che mi sospesero due mesi dall’«attività» giornalistica, il che non capii che cosa volesse dire dato che da tempo non lavoravo più in un giornale.
Continuai a fare quello che ho sempre fatto, scrivere articoli, il che è un diritto costituzionale se non erro. Dal consiglio regionale mi arrivò una nuova e minacciosa lettera, chiedendomi di interrompere la produzione di quegli articoli. Risposi che ero «un autore di qualità» e che con loro non volevo perdere un solo minuto della mia vita.
Mi arrivò una terza lettera con la quale mi comunicarono che ero stato «tolto» dall’albo dei giornalisti.
Da allora ho risparmiato i cento euro annui che versavo all’Ordine dei giornalisti. Non dirò che ne sia stato moralmente lacerato.
Non se l’ abbia a male, caro Verna, ma questo è il punto. Se ha il benché minimo senso l’ esistenza di un organo – il consiglio nazionale dei giornalisti – che soprassiede alle regole deontologiche della professione e rimbrotta di volta in volta ora l’ uno ora l’ altro autore di un titolo o di un articolo apparso sui giornali. Il tutto dello scambio di opinioni tra lei e il mio vecchio amico Vittorio Feltri nasce dal fatto che Feltri ha scritto feltristicamente della condizione di salute di Andrea Camilleri, al che qualcuno di voi gli ha puntato il dito contro. Definire tutto questo qualcosa di ridicolo è dire poco, è dire niente. Se delle persone presunte a modo dovessero puntare il dito contro una tantissima parte di quello che esce sui giornali, ne scaturirebbero contese e ammonizioni a non finire. Lasciate che Pietro Senaldi o Vittorio Feltri facciano il loro lavoro per come lo intendono.
Feltri scrive feltristicamente, Scalfari scrive scalfaristicamente, molti direttori di giornali scrivono non saprei dire come e comunque scrivono. Giudicheranno i posteri. Verrà un giorno, scrisse una volta Leonardo Sciascia, che qualcuno leggerà quel che appare sui giornali. E siccome ho vissuto trent’ anni nei giornali, so di che pasta erano fatti molti dei miei colleghi.
Come volete che Feltri scriva se non al modo suo, al modo che piace a lui e ai lettori del suo giornale? Ovvio che in quelle sue righe non c’ è “deontologicamente” nulla di blasfemo. È il suo stile, la sua da lui conclamata predilezione per parole e ragionamenti ruvidi. Che c’ entra il “comitato” di giudici cui lei accenna? Si facciano gli affari loro, scrivano gli articoli loro, si trovino uno stile che convinca dei lettori ad acquistare un giornale.
Le parla uno che prima di usare una parola ruvida ci pensa diecimila volte. Quando più volte mi hanno chiesto com’ è che fossi stato «tolto» (non «radiato») dall’albo dei giornalisti, ho sempre risposto che quel provvedimento lo aveva preso una congrega di nullità. Non c’ era nulla di ruvido. Era una mia opinione, o meglio era un fatto.
(di Giampiero Mughini, fonte liberoquotidiano.it)