Lo sguardo ironico di Stefano era diventato sempre più triste negli ultimi tempi. Il suo sorriso più disincantato. Per tanti anni ha raccontato la sua città, che è anche la nostra, con l’amore senza sdolcinature di un innamorato deluso ma tenace, con un tocco di autoironia che è un dono raro e prezioso per noi nisseni.
Il suo sguardo acuto e attento di giornalista intelligente gli permetteva, partendo da un gesto, da una parola, di ricostruire un back-stage, di svelare un retroscena, qualche volta interpretando il non-detto. Ma nessuno lo ha smentito mai.
Sapeva distinguere i piani della comunicazione, Stefano, e calibrare i registri del linguaggio e le parole, slalom di incisi e virgolettati, con un condizionale che alla fine accreditava tutti i possibili scenari.
E’ stato il suo stile, il suo modo di dire la verità, leggendo i fatti e le persone che osservava, consapevole, come amava dire, che il pubblico “cerca la guerra” sulle pagine della cronaca. E lui gliela disinnescava con la sua narrazione la guerra, trasformandola in una sceneggiatura a volte amabilmente feroce delle diatribe nissene, che teneva alta la tensione senza mai fare male a nessuno.
La Settimana Santa e il mondo dell’associazionismo devozionale era uno dei suoi contesti preferiti: tempo in cui il popolo nisseno si veste della dimensione del sacro, rivelando spesso, per contrasto, tutta la propria irrimediabile terrestrità.
Umano, troppo umano, l’osservatorio antropologico di cui Stefano è stato lo scienziato, anche nell’arena sempre più virtuale della politica cittadina , o nello sport. Libero, e forse anche per questo, troppo solo.
La solitudine ha divorato le sue energie. La solitudine, il vizio capitale della nostra identità nissena, e la precarietà di una professione mai adeguatamente riconosciuta e tutelata che ne ha corroso alla fine la capacità di resistere. Ma non ne ha piegato la dignità, trasformata nel coraggio della disperazione con un gesto estremo, incidendo su di sè la violenza che per tutta la vita aveva cercato di disinnescare con le sue cronache, capaci di trasfigurare le piccole “tragedie” del nostro vivere pirandelliano in commedie a lieto fine.
Per sè il lieto fine non lo ha potuto scrivere, quasi una nemesi, che ci lascia feriti nell’anima, disorientati, senza parole.
Raccogliamo della sua vita l’esempio della passione per il suo lavoro di giornalista, giornalista di strada,non da tavolino, felice di stare in mezzo alla gente e alle situazioni. Un lavoro vissuto con umiltà e stile minimalista, distaccato anche nella provocazione, ma insegnato e tramandato con orgoglio ai giovani colleghi, per i quali è stato maestro premuroso e punto di riferimento stimato.
Sempre con un lampo di ironia nel sorriso, capace di destabilizzare i luoghi comuni e di fare germogliare domande inaspettate anche dai fatti più scontati. Fino al suo ultimo giorno, quando il dono della sua ironia non è riuscito a compensare più la disperazione della solitudine.