Ora che Giovanni Trapattoni compie 80 anni, che i suoi fatti cominciano ad essere lontani e si può parlare più serenamente di calcio, è tempo di dire che non è mai stato il catenacciaro previsto. Helenio Herrera, che gli allenatori li inventò agli inizi degli anni 60, diceva tu pensa a vincere, gli altri ti spiegheranno come hai fatto. Cioè la teoria arriva dopo la pratica, la vera scuola è l’istinto, forse il buon senso. Ma non c’è una regola. Trapattoni non era difensivista, era uno che non voleva sprecare il gol. Dopo aver segnato, bisogna saper difendersi, sennò perché ho segnato? Quando andava al ristorante il Trap non amava i piatti troppo ricchi né essere lui a sfoltirli («non si butta via il cibo»), lo faceva fare ai camerieri. Nel calcio, nella vita, è stato questo, non un risparmiatore, ma uno che dava importanza a quello che aveva nel piatto.
E’ vero, ci sono dei dati. Quando Trapattoni comincia a vincere con la Juve nel ’77, la media gol a partita comincia a scendere. Più il calcio diventa di Trap e più questa media scende. Radice nel ’76 vince con il Torino, la media è 2,25 gol a partita, si gioca a 16 squadre. L’anno dopo, nel tempo di Trap scende a 2,21, poi a 2,13. Nelle quattro stagioni successive, due vinte dalla Juventus, è sotto i 2 gol a partita. Bettega vince la classifica cannonieri con appena 16 reti. Era la sua Juve, quella di Trapattoni. Era il calcio di quella Juve, a cui tutti cercavano di ispirarsi. La novità di Foni, Rocco e Herrera, non fu che inventarono il gioco all’italiana, quello esisteva già ma era giocato solo dalle piccole squadre. Il catenaccio, l’attenzione difensiva era una specie di ridistribuzione della ricchezza: come mi difendo da quelli più forti? Mettendo più uomini indietro. La novità era fare un calcio difensivo anche con le grandi squadre. Il primo e forse l’unico che lo fece fu Foni nell’Inter a inizio degli anni 50. Rocco non avrebbe mai giocato come con il Padova a San Siro, una questione di onore. Herrera era l’opposto, disponibile a tutto. Herrera come Trap era nato povero. Rocco no, i suoi venivano da Vienna, gestivano di carne le mense delle navi che partivano dal porto di Trieste. Trapattoni con Rocco vinse la prima Champions italiana contro il Benfica, quella in cui il fragile Rivera lanciava eternamente oltre tutti Altafini. Rocco aveva sbagliato marcatura, aveva dato Eusebio a Benitez, più un mezzofondista che un mediano. Quando il Benfica stava già vincendo Rocco fischiò a Giovanni e gli disse di pensare lui al ragazzo nero. La partita girò, Eusebio non la prese più. Ma era stato tutt’altro che catenaccio. Come contro l’Ajax, altra Coppa dei Campioni. Un attacco con Hamrin-Lodetti-Sormani-Rivera-Prati, un solo uomo (Lodetti) addetto al recupero della palla. Cosa vuoi dirgli, catenacciaro? Trapattoni è cresciuto in questo vento, attaccare quando serve in tanti, difendersi quando serve in di più. Ma non farne uno scopo, né di una cosa né dell’altra. Il calcio è capire il momento, l’avversario. Se sai abbinare le intuizioni diventa facile.
Il Trap ha sempre giocato con due punte vere e un fantasista. La sua prima Juve era formidabile: Causio-Boninsegna-Bettega davanti, poi Furino-Tardelli-Benetti alle spalle. Ma è stato il Trap per primo a cercare i terzini che attaccavano da entrambi i lati: Cuccureddu, poi Gentile e Cabrini. Il suo calcio tradotto in schemi era un 4-3-3- o un 4-3-1-2 con i terzini molto disposti ad attaccare. Lo hanno anche chiamato zona mista. Erano tempi, quelli di Trap, dove in area si marcava a uomo e in mezzo al campo ognuno stava nel suo spazio. Per dire, Brady non si occupava mai del suo avversario né gli avversari si occupavano di lui, erano troppo lontani. Il primo ad attaccare i registi con gli attaccanti fu Radice con Graziani. Bagnoli poi a Verona fece diventare l’idea una struttura e il calcio cambiò.
Ricordo Trap come l’ultimo allenatore ragazzo. Non voleva collaboratori, allenava davvero lui, ma non la grande tattica, qualunque cosa: il modo di avvicinarsi al cross, come si faceva un cross, quando un attaccante doveva andare incontro al pallone e quando scappare, quando un difensore doveva cercare la palla anziché l’uomo. O viceversa. Si divertiva. Una volta mi disse che la vita per lui era stata una scommessa che aveva vinto e non si stancava mai di riscuotere. Gli avevo chiesto di scrivere il racconto di questa vita, aveva già più di 70 anni. Mi disse che non capivo. Lui non aspettava una memoria, aspettava una squadra. Non era mai finita. È stato un contadino senza terra, juventino sempre ma con tante storie, ognuna una bandiera. Confusionario lucido, grande pubblicitario di se stesso forse solo perché vero, perché sincero. Diretto, ma diffidente, la réclame del mondo. Ha allenato l’Inter pur venendo dalla Juve e dal Milan. Ha allenato la Fiorentina pur venendo da tutto il resto. Nessuno gli ha mai rimproverato un giorno del suo passato. È stato competenza e passione, un finto ingenuo che ti portava sul suo terreno per divorarti con l’evidenza. Aveva un eloquio per giornalisti e uno per la sua vita. Quando parlava di calcio e basta era uno spettacolo di logica, il calcio come una scienza contadina, se semini, se piove, poi raccogli. Nella prima versione era un po’ naïf, doveva interpretare ed era meno se stesso. Ho pensato che a volte sbagliasse apposta. È entrato nella storia anche i per i suoi svarioni, lo Strunz tedesco, la piccola bestemmia in diretta, il discorso che deve rimanere circonciso fra noi. Ricordo alcune perle perfidamente tenute scritte: «Giocatori con caratteristiche simili si eludono a vicenda e diventa poi anche difficile proporsi in emozione»; oppure «il propagandarsi o l’essere il protagonista comunque sulla base quotidiana dei mezzi di comunicazione è un esigenza che molti hanno ma che è altamente inflazionistica». Lo Strunz della leggenda era un giocatore del Bayern che lo aveva contestato. Trapattoni si concentrò ed esclamò fra lo stupore genuino di tutti: «Was erlaubt sich ein Strunz?», come si permette uno Strunz? Era stravolto, isterico, se stesso, veramente incazzato ma in tedesco. E Strunz era così onomatopeico. Fu un altro trionfo.
Il Trap è ancora un contemporaneo, per fortuna, vive e vede calcio insieme a noi. Non perdetevelo, anche se vi sembra di un’altra epoca sappiate che è vero, lo è, ma il calcio buono non ha età. E il Trap conosce quel calcio. È con Rocco, Lippi e Bearzot il maestro di tutti noi. Poi c’è Sacchi, ma quella è un’altra storia. Tanti auguri Giovanni. (di Mario Sconcerti, fonte corriere.it)