“U Chiantu” di Aldo Rapè: la memoria è una scala spezzata

di Fiorella Falci – La scala spezzata: è il punto d’arrivo, compare dopo i titoli di coda, quasi un post scriptum, alla fine di “U chiantu” il film di Aldo Rapè e Andrea Valentino presentato in prima nazionale al Margherita di Caltanissetta, in quel teatro costruito nell’800 in cui ogni doratura è pagata con il lavoro di generazioni di zolfatai che hanno fatto ricca l’economia di questa città.

La scala della discesa agli inferi delle zolfare, quella che i carusi salivano dalle viscere della terra portando sulle spalle il carico delle pietre di zolfo, dai 20 ai 70 chili, per 10/16 ore di lavoro da bestie. La scala che non permetteva di appoggiarsi perché i gradini, alti, alternati per guadagnare spazio in altezza, sono fatti per appoggiare un piede solo, e poi un altro, senza tirare il fiato, fino all’uscita, a completare il “viaggio” e scaricare la cesta davanti al contabile per la pesata che calcolava il salario di quei piccoli schiavi.

Non occorrono altre parole e immagini per ricordare la zolfara, fonte di pane e morte per due secoli nel cuore della Sicilia: è la memoria di quella storia di sfruttamento e di violenza “u chiantu” silenzioso, doloroso, muto, dei protagonisti quando arrivano alla fine del loro viaggio, davanti alla bocca infernale.

Un viaggio vissuto e raccontato invece con leggerezza straniante, ironia amara e lo stile graffiante dell’umorismo pirandelliano. Una Sicilia al contrario, quella del film, sottosopra, come il mondo sotterraneo delle miniere, con i ciechi che ci vedono e gli invalidi che passano dalla sedia a rotelle al tango, con il furgone bianco dell’Ente Minerario (esiste ancora? chiedono tutti quando lo si nomina) quasi un’arca di Noè abbandonata in panne in mezzo al paesaggio irredimibile, segnale muto della presenza dei protagonisti inseguiti dal loro direttore-sceriffo tra cento peripezie, quasi un viaggio parallelo nella memoria (la processione, la banda musicale, il cimitero dei carusi, i soprannomi degli zolfatai, i racconti riemersi improvvisamente, scambiati tra i figli di quella generazione perduta che si ritrovano a tavola vicino alla vecchia miniera, come nell’antica tradizione del ‘tocco).

La memoria: maledizione rimossa per cinquant’anni, desiderio di riscatto dalla miseria cercato nel travestimento borghese, giacimento da riscoprire invece, oggi, e il film lo racconta con delicata determinazione. Un sasso nello stagno questo film, forse troppo breve ma aperto al seguito che nella memoria di ciascuno riesce a generare.

Un film tutto fatto da siciliani, che cerca ora una distribuzione nazionale, e ci auguriamo che ne faccia di strada, con la storia che porta con sé e che rimane una radice di futuro, per tutti noi.

Fiorella Falci

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