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Un patto educativo territoriale per la Città

Redazione

Un patto educativo territoriale per la Città

Mer, 30/01/2019 - 21:32

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di Marina Castiglione

Di recente mi hanno chiesto da cosa comincerei se potessi pensare ad un progetto cittadino. Fermo restando che è nel potere di tutti pensare alla propria comunità dal proprio posto di responsabilità, mi è venuto spontaneo rispondere: «partirei da un suo punto di forza, ossia il mondo della scuola.»
Quando si vivono momenti di ripiegamento interiore, ciascuno di noi, infatti, deve farsi forte di ciò che ha costruito con abnegazione e sacrificio; di ciò che rimane àncora e approdo; di ciò che sostiene nonostante gli scivolamenti.
Ecco: a Caltanissetta, la scuola funziona.
Funziona perché i docenti riescono ad essere trincea rispetto alle accelerazioni di uno sfibramento sociale; perché riescono a stare al passo con i saperi in evoluzione; perché sono duttili al cambiamento della qualità e quantità del lavoro (che non consiste soltanto nelle 18 o 24 ore di didattica frontale). Funziona perché i dirigenti cercano di coniugare la complessità con le responsabilità sempre maggiori e con nuove conflittualità che talora oppongono scuola e famiglia; perché le segreterie recepiscono con professionalità i continui cambiamenti legislativi che raramente consentono di replicare l’anno scolastico successivo ciò che è stato formalizzato nel precedente.
Funziona nonostante i continui tagli alle risorse; nonostante edifici talora privi di palestre e di spazi di socializzazione; nonostante le riforme e controriforme che tolgono valore e consistenza al merito; nonostante le disomogeneità dei nuovi apprendenti di italiano come lingua seconda.
Funziona nonostante gli operatori sappiano intimamente che, in realtà, il sistema è collassato. Una cosa, infatti, ha contraddistinto le politiche scolastiche: la progressiva mano pesante sull’organizzazione scolastica e la ossimorica mano leggera nel distribuire risorse.
L’Italia è stato l’unico paese europeo che dopo il 2008, negli anni della crisi, tagliò con Tremonti che faceva il ministro dell’Istruzione per conto della Gelmini, ben 8 miliardi alla scuola. Nessun altro paese (governato da destre o sinistre) ha fatto analoghe scelte suicide, perché tutti sappiamo che, quando c’è crisi, è necessario investire in innovazione e l’istruzione è la prima cosa da salvaguardare e far crescere in qualità e quantità. La continuità in questa opera di despoliazione è rimasta inalterata nei dieci anni successivi e non accenna a cambiare corso. Gli “analfabeti funzionali” non sono figli di questo governo, per intenderci…
I professori hanno subìto le classi pollaio, la diminuzione del monte ore, l’imbarazzante invenzione disciplinare della geo-storia, la marginalizzazione dei saperi a vantaggio delle competenze, la scomparsa dell’educazione civica, l’invadenza dei corsi, conferenze, presentazioni di libri in orario curriculare, l’“esposizione” di pacchetti formativi nelle giornate di orientamento come se la scuola si fosse trasformata in un’agenzia di viaggio.
Noi docenti, di ogni ordine e grado, abbiamo favorito mutamenti profondi senza reagire e controllare, anzi, adattandoci ad un supplizio di cui riconoscevamo l’inutilità e il danno progressivo.
Oggi ci stupiamo di non avere un ruolo sociale, ma abbiamo rinunciato ad esercitare il ruolo di intellettuali; ci stupiamo che gli studenti sappiano sempre meno, ma ci limitiamo nel chiedere approfondimenti perché un Ministro della Repubblica ci intima di assegnare pochi compiti per le festività natalizie; ci stupiamo che gli studenti siano imbambolati davanti agli schermi dei vari strumenti tecnologici, ma non sappiamo far comprendere la bellezza di leggere un libro, far sentire l’emozione di una scoperta scientifica, dare risposte ai perché oggi siamo dentro una nuova storia che frammenta gli Stati anziché unirli; ci stupiamo come se non fossimo parte di un sistema che ci vede protagonisti, ognuno con le proprie responsabilità.
La classe insegnante tutta dovrebbe chiedersi: come sto attualizzando il mio compito educante? Sto veicolando l’idea che l’utile non è il solo prodotto quantificabile in denaro, nozioni, valutazioni, ma soprattutto è utile civico, di crescita collettiva, di valorizzazione dei legami? Sto ponendo domande forti alla mia disciplina così da essere credibile presso i miei studenti?
Anche all’Università la professionalizzazione delle scienze ha modificato il ruolo sociale delle scienze stesse e gli stessi umanisti sono diventati esperti iper-specializzati distaccandosi dal senso complessivo del sapere.
In una società che pur avendo il più grande patrimonio culturale e storico-artistico mondiale declassa le scienze umanistiche, dobbiamo renderci conto che tutto è stato capovolto, perché se il nostro orizzonte di insegnamento è limitato all’immediato e alla ricerca passiva di “informazioni” da collazionare con il metodo “copia e incolla”, tanto vale non applicarsi a studiare neanche i buchi neri e la geologia. Ma per vivere e per educare non basta avere una medicina per ogni malanno, una buona tecnologia per ogni fatica e google ricerca per ogni dizionario enciclopedico: a scuola non formiamo soltanto futuri architetti, cuochi, infermieri, odontoiatri, avvocati, ma anche futuri cittadini, padri, madri, volontari, politici.
I nostri metodi didattici sono collegati agli obiettivi più nobili dell’educazione e non ai programmi che cambiano come le proposte dell’ultima moda.
Contro ogni moda educativa e ogni consumismo culturale era don Lorenzo Milani, educatore intelligente e determinato, quindi pericoloso. La vera cultura deve essere pericolosa per il sistema. Deve porsi come interrogativo costante e percorso interpretativo dei fenomeni del reale. Deve costruire la consapevolezza della relatività e fragilità dell’animo e dei prodotti dell’uomo. Deve contrastare i conformismi e i dogmi con la forza dell’argomentazione. Deve fare toccare con mano parole e teorie e trasformarle in prassi.
Cosa c’entra tutto questo con Caltanissetta?
Sono partita dalla premessa che credo nella scuola nissena come comunità educante che ha cura delle future generazioni e credo che questa comunità debba riconoscersi come tale aldilà delle appartenenze ad un Istituto o ad un altro. Ma questa comunità deve diventare protagonista di percorsi consapevoli di riscatto e autonomia.
Proprio il venir meno della considerazione sociale del ruolo e del valore della classe docente potrebbe essere, in una città come la nostra, il motore di una rivalutazione globale del modo di fare scuola.
In questo senso un ruolo centrale dovrebbero occupare la Consulta della scuola e la Consulta dei Giovani, in qualità di luoghi della progettazione unitaria e dell’animazione di iniziative che pongano al centro un’idea di patto educativo territoriale con tutti gli enti e gli organismi cittadini coinvolgibili. Le esperienze di “città educanti” sono presenti come incubatori soprattutto in Nord Italia e stimolano la condivisione di principi educativi tra i soggetti che vi aderiscono. La possibilità di co-costruire un patto educativo è un passaggio importante per porre al centro dell’attività di ciascun ente i bambini e i giovani, tornando a discutere di che tipo di società stiamo costruendo insieme. All’interno del patto educativo dovrebbe ritrovare spessore il percorso di cittadinanza attiva costituito dal Consiglio comunale dei giovani.
La prossima amministrazione comunale dovrà risolvere seriamente il casus del dimensionamento scolastico degli istituti comprensivi che, dopo una definizione avvenuta nel giugno 2016, è stato riposto in un cassetto: la situazione delle nascite e della popolazione scolastica è peggiorata, ma si ha paura a mettere mano ad una “messa in sicurezza” che assicuri stabilità nei numeri, territorialità e verticalità almeno per il prossimo decennio.
Agli adulti e a tutte le agenzie politiche resta demandato l’annoso problema del pendolarismo e del diritto allo studio che ogni giovane generazione si trova in eredità sperando di poterlo risolvere con tavoli tecnici, assemblee e buona volontà: è indegno che ad oggi manchi la possibilità di arrivare a scuola in orario senza dover percorrere chilometri a piedi per raggiungere il proprio plesso scolastico.
Una legge regionale, inoltre, la L.R. 9/2011 “Norme sulla promozione, valorizzazione e insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole”, attualmente operativa e rilanciata, potrebbe costituire la base legislativa per fare di Caltanissetta la sede di una sperimentazione di scuola diffusa dell’Identità culturale cittadina negli istituti scolastici della città mediante azioni volte alla formazione della classe docente. Tale azione andrebbe sviluppata attraverso una conferenza di servizi con l’ufficio scolastico provinciale. A ciò si aggiunge anche l’inserimento nei PTOF delle scuole di progetti volti alla conoscenza e valorizzazione dell’identità culturale locale sostenuti finanziariamente dal Comune come strumento mediante il quale combattere il fenomeno della dispersione scolastica e consolidare il senso di appartenenza ad una città che ha una storia ricca a partire dai popoli pregreci, una letteratura interessante e un dialetto tra i più peculiari tra le varietà linguistiche isolane.
A tal proposito, dopo la positiva esperienza di “Rosso in un tweet” a cui hanno partecipato Licei e Istituti tecnici, si è lanciato, con il Parco letterario Piermaria Rosso di San Secondo, il progetto “Caltanissetta in un tweet”, per coinvolgere tutte le scuole nella costruzione di un portale turistico originale ed esperienziale che coniughi scrittura breve, percorsi inconsueti, social.
L’offerta formativa è un fiore all’occhiello che merita di sbocciare ancora di più e di definire la sua centralità cittadina nella visione dei prossimi anni, arricchendosi di sbocchi successivi come gli Istituti Tecnici Superiori, al momento inesistenti in città, e con Master post-universitari su cui si potrebbe cominciare a riflettere insieme al Consorzio universitario.

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