Diciassette anni fa l’attacco alle Torri Gemelle. Da allora abbiamo avuto due guerre e tre presidenti degli Stati Uniti. Ma un terzo delle vittime di Bin Laden ancora devono essere identificate.
Mille e non più mille. Mille e centoundici, due volte quel numero maledetto: 11 e 11. Undici settembre: la numerologia spicciola induce ancora oggi, come esattamente 17 anni fa, alla ricerca di una spiegazione, sia essa anche le meno razionale. Ma accanto allo snocciolare le interpretazioni della facile teologia apocalittica, quelle della Babilonia distrutta per l’adorazione del dio denaro, prosegue il lento lavoro della umana pietà, che ancora lotta sostenuta dalla scienza positiva per rendere la prima giustizia agli agnelli sacrificali di Osama bin Laden: dare loro un nome.
La Superpotenza Solitaria e le sue vittime
Dall’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001: 2.753 vittime, la fine del sogno della Fortezza America e l’inizio della guerra della Superpotenza Solitaria al grande Terrore internazionale) abbiamo avuto almeno due conflitti dichiarati, centinaia di migliaia di morti, il Medioriente destabilizzato, i rapporti tra Usa e Europa portati ai minimi termini, la fine dell’età dell’ottimismo che era iniziata con il 1989. La più grande crisi economica dal 1939. Sono passati tre presidenti alla Casa Bianca, tre papi a Roma, la Russia è tornata a far impensierire l’Occidente e la Cina si è trasformata nella più agguerrita potenza commerciale del Pianeta. Ma accanto a Ground Zero, nel silenzio, i morti dell’America dell’11 Settembre aspettano nel silenzio, tra provette e camici bianchi. Di quelle quasi tremila vittime, infatti, ne sono state identificati due terzi. All’appello ne mancano, per l’esattezza 1.111
I loro resti sono conservati in un laboratorio, proprio a due passi da dove crollarono le Torri Gemelle. Giorno dopo giorno una squadra di medici legali tenta l’impossibile: identificare la presenza di tracce di dna e confrontarle con quello dei parenti delle vittime, per dare a ciò che resta dei loro congiunti l’identità, e un funerale degno di questo nome.
Non è una questione di difficoltà di reperimento dei resti. Al contrario. Il problema è che quei resti sono volati giù da cento piani in una bolgia di fuoco, cemento, ferro fuso, carburante da boeing, batteri e agenti atmosferici che del dna hanno lasciato pochissimo, troppo poco anche per i più bravi esperti del settore.
Quel che resta di Scott
I medici, alcuni dei quali si ricordano quella mattina perché seppero delle Torri Gemelle mentre erano a scuola, esattamente come i loro genitori avevano saputo sui banchi di scuola della morte di John Kennedy, tentano l’operazione con la pazienza degli amanuensi. Anche dieci, quindici volte. Ma solo di rado si ottiene qualcosa. L’ultima volta è accaduto a luglio. Il ragazzo si chiamava Scott Michael Johnson, aveva 26 anni e faceva l’analista finanziario. Al momento dell’arrivo dei jet dirottati dagli uomini di Al Qaeda si trovava, pare, all’89mo piano. Per 88 è venuto giù, disintegrandosi progressivamente.
Cento esseri umani persi nel vento
Fuori della porta del laboratorio si affacciano, all’avvicinarsi dell’anniversario, i parenti. Quelli che hanno dato i loro campioni di sangue o di saliva per facilitare un’identificazione non ancora arrivata. Tra loro e i medici, caso unico nella storia della scienza forensica, si è stabilito quasi un rapporto affettivo figlio della dimessa speranza e della speranzosa tenacia. Soprattutto ogni anno, quando le commemorazioni sono finite e mestamente si torna a casa portando i segni del lutto, c’è chi si ferma davanti a quella porta perché sa che lì dentro, in una cassettina o forse in qualcosa di più piccolo, è conservato tutto quello che resta di un figliolo o di una fidanzata. Forse una risposta verrà da una nuova tecnica, annunciata proprio in questi giorni, che prevede l’impiego dell’azoto. Chissà.Comunque quei parenti non sono nemmeno i più sfortunati, perché ci sono almeno 100 persone di cui si è persa definitivamente ogni traccia, persino il più piccolo frammento osseo da cui poter immaginare di estrarre l’acido desossiribonucleico. Niente: polverizzati, persi nel vento. Inutile pensare di poter fare qualcosa.
Il numero della Babilonia caduta
Può stupire, a questo punto, se in un Paese abituato ad assegnare a se stesso un ruolo salvifico e quasi messianico fioriscano ogni anno interpretazioni millenaristiche di quella tragedia? Anche questo settembre c’è chi si è ricordato di attribuire valore profetico ad un passo dell’Apocalisse, il capitolo 18, in cui si legge dell’Angelo del Signore che annuncia la fine di Babilonia: “È caduta, è caduta Babilonia la grande, ed è diventata covo di demòni, rifugio di ogni spirito impuro, rifugio di ogni uccello impuro e rifugio di ogni bestia impura e orrenda. Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato”. Lo stesso passo che rimbalza sulle pagine dei giornali da 17 anni, divenendo con il tempo persino stucchevole.
Non c’è bisogno di essere discepoli di Voltaire o Diderot per trovare stiracchiata la pretesa di leggervi l’annuncio delle follie di bin Laden, come anche nell’interpretare i quattro jet lanciati su New York, sul Pentagono e forse sul Campidoglio i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Ma quel che conta, in questi casi, non è l’interpretazione filologica dei testi alla quale noi europei siamo così affezionati. L’importante è sapere che in questa orribile storia iniziata 17 anni fa l’America vede ancora qualcosa di oscuro, che le sfugge, e quindi anche la numerologia più elementare può, se non lenire le paure, almeno illudere in una spiegazione purché sia. Mentre la scienza, quella vera, continua nel silenzio a cercare di dare un nome a 1.111 poveri corpi. E non importa se il loro numero maledetto fa venire in mente la Bestia Trionfante. (di , fonte agi.it)