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Manfredi 3° Chiaramonte: macchietta obesa oppure “Re di spade”? ( di Fra’ Luigi Sapia)

Carmelo Barba

Manfredi 3° Chiaramonte: macchietta obesa oppure “Re di spade”? ( di Fra’ Luigi Sapia)

Mar, 21/08/2018 - 07:00

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(di Fra’ Luigi Sapia)  – Approssimandosi la festa civica del Castello di Mussomeli con Corteo storico, Fiera, Mostra di pittura, scultura, grafica e fotografia, ecc. insieme a quella religiosa della Madonna della Catena, il pensiero vola pindaricamente ai tempi eroici della sua costruzione, sapientemente architettati e vivacemente rievocati dal mussomelese Giuseppe Messina nel suo magnifico romanzo storico “AL MUTAR DEL VENTO”.

Uno storico siciliano, in vena di ironia e di icone significative, tempo fa paragonò i 4 Vicari del Regno di Sicilia, della seconda metà del Trecento (: Manfredi III Chiaramonte, Artale d’Alagona, Francesco Ventimiglia e Guglielmo Peralta) alle figure dei 4 “Re” delle carte da gioco siciliane. Logicamente il Re di spade fu identificato nel potentissimo Manfredi III, sovrano di un terzo della Sicilia e che “per il suo valore avrebbe ben meritato la corona di Sicilia”(come scrive l’ing. Angelo Cutaia da Racalmuto nella prefazione del romanzo).

Circa otto anni fa poi un famoso romanziere: Valeria Evangelisti nel suo romanzo noir “REX TREMENDAE MAIESTATIS” presentò il predetto Manfredi quale “persona intelligente e di maniere quasi regali”, “non priva di acume”, ma basso di statura, ubriacone e talmente obeso che si muoveva a stento: “una botte di empietà”! Ma ci si chiede: un principe che, a circa quarant’anni d’età, perfino per scendere le scale doveva (secondo l’Evangelisti) reggersi “a fatica al corrimano” ed aiutarsi “con un bastone dal pomo dorato” (pag. 139), come avrebbe fatto ad accorrere “a marce forzate” dove c’era bisogno della sua presenza, a cavalcare intere giornate da un Vallo all’altro dell’isola, da un campo di battaglia all’altro, a varcare il mare per andare a conquistare l’isola africana di Gerba nel 1389 e così dare una mazzata alla pirateria islamica?…

Molto più comprensibile, poiché più aderente alla realtà storica, è invece la sua figura “a tutto tondo”, scolpita dalla penna di Giuseppe Messina, e che giganteggia tra “le donne, i cavalier, l’orme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese …” di ariostesca memoria.

Qualche anno fa il grande scrittore e romanziere siciliano Enzo Russo scriveva nel suo prezioso “INCOMPRENSIBILE SICILIA” una frase perentoria: “In Sicilia mai nessun barone ha voluto farsi re”, sulla quale io avrei però qualche dubbio: secondo il mio modesto parere, Manfredi III fu la classica eccezione che conferma la regola.

Benché reputi Enzo Russa uno dei nostri più lucidi scrittori d’Italia, mi sia quindi permesso di avanzare l’ipotesi che se Manfredi III, il potentissimo Primo Vicario del Regno, capo della fazione • latina antiaragonese e che teneva “relazioni dirette con papi e re, fino a dare in sposa sua figlia Costanza al re di Napoli Ladislao di Durazzo”, fosse vissuto più a lungo, avrebbe continuato a combattere tutta la vita per “farsi re” o almeno ci avrebbe tentato sino “all’ultimo sangue”: la ribellione contro il pretendente catalano Martino, effettuata, nonostante il simbolico “mutar del vento”, dal nipote Andrea Chiaramonte, e sul quale il Principe aveva riposto le sue speranze, ne è una prova consistente.

Così come tutto il suggestivo romanzo di Giuseppe Messina, nel quale Manfredi III esprime il suo rifiuto furioso buttando “a terra la pergamena (della partecipazione di matrimonio tra Martino e Maria, regina di Sicilia) e mettendoci sopra il piede”, ne è la comprova.