Riflette un paio di secondi prima di abbozzare un titolo per una ipotetica (ma non troppo) copertina da mandare in edicola. Tac, ispirazione arrivata ed è la ripetuta – ma sempre d’attualità – citazione del gattopardismo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Ok, si va in stampa. Così parlò al Fatto Nisseno Marco Damilano, da poco più di un mese alla guida del settimanale l’Espresso e uno degli analisti più attenti della vita politica italiana. Gli abbiamo chiesto un’opinione sull’ultima, tormentata, tornata elettorale sicula. Nel suo ultimo libro «Processo al Nuovo», Damilano ha focalizzato una dura critica alla parola che ha accompagnato l’Italia negli ultimi tre decenni. Il nuovo, appunto. «Il ‘nuovo’ ha consumato se stesso perché senza progetto. Con il ‘passato’, ha buttato via anche il futuro. I suoi paladini si sono rivelati clamorosamente inadeguati alle sfide, hanno deluso chi voleva cambiare e tradito chi ci aveva creduto», è il Damilano-pensiero.
Direttore, fatto il titolo ora serve un commento sull’esito delle elezioni siciliane. Cosa è cambiato?
Beh, mi è venuto in mente questo titolo considerato che s’è cambiato il governatore e quindi il colore politico dello schieramento che guiderà la Sicilia, ma di fatto abbiamo assistito a una transumanza di voti passati da destra a sinistra e anche di deputati regionali. Anche il tono della campagna elettorale all’insegna del ‘non vi preoccupate non cambierà nulla’ è indicativo, tant’è vero che più della metà dei cittadini non sono andati a votare, molti di più del 2012. Gli elettori, insomma, hanno percepito un messaggio di non cambiamento piuttosto che di cambiamento.
Pensa che il neo governatore Nello Musumeci sia un modello di rottura con il passato oppure l’affaire impresentabili peserà per l’intera legislatura?
Lui sul piano personale rappresenta sicuramente una novità, anche se è un politico di lungo corso. Ma non è affatto una novità così come la maggioranza che lo sostiene, né alcuni personaggi, né alcuni metodi. Il fatto che un potente condannato in primo grado a 11 anni, mi riferisco a Genovese, abbia presentato il figlio che non hai mai fatto politica e preso un record di preferenze, ecco questa è l’immagine di non cambiamento.
Ritiene che per il centrodestra sia una vittoria replicabile a Roma?
Sì, nel 2012 le elezioni siciliane anticiparono alcuni fenomeni che poi mesi dopo si rividero nello scenario nazionale. Un Pd che vinceva e non vinceva, come successe a Bersani nel 2013, il boom del M5s, la destra divisa che perdeva. Allora in Sicilia si candidarono Micciché e Musumeci, ma nel momento che si sono riuniti – come sta accadendo tra Berlusconi, Salvini e Meloni – i numeri sono tornati a dire che la destra ha una maggioranza in Sicilia. Probabilmente non una maggioranza, ma competitiva per essere il primo schieramento nel resto d’Italia.
Che ne sarà della rivoluzione di Crocetta? Un modello da seguire, capitolo per libri di storia o solo un brutto ricordo?
Non conosco bene la situazione politica siciliana, da osservatore nazionale dico che non l’ho vista. Mi sembra che le province sono ritornate, sul piano dei comportamenti politici ci sono stati 50 cambi di assessorati. Siamo in una situazione simile a quella della Giunta Lombardo che fece il governo con l’intero corpo dell’Ars. A un certo punto, a turno, entrarono tutti. Crocetta non mi sembra che si sia distaccato da questo modello. E il regista dell’operazione è stato sempre il senatore Lumia.
La Sicilia da sempre è stata l’ombelico della Dc e, poi, feudo berlusconiano con il celebre 61 a 0. Oggi sbandiera un voto antipolitica con i M5s. Va riscritta la storia del partitismo o, tramontata l’era del vaffa, i blocchi ritorneranno come prima?
L’era del vaffa è già tramontata. Non è più un voto di rottura, è un voto a un partito che anche se non si fa chiamare tale in realtà è questo. Un partito radicato, consolidato, che ha più militanti sul territorio rispetto al Pd che fino a pochi anni fa vantava di essere il partito più strutturato. Lo hanno dimostrato il voto in Sicilia e quello di Ostia, in una situazione in cui gran parte dell’elettorato non va a votare. È un movimento che viene percepito da una parte di elettorato come omologato al sistema. Un pezzo di elettorato che nel 2013 ha affidato al M5s un compito di rottura è deluso e non va più a votare.
Lei ha scritto che “la stagione del Berlusconi egemone è finita e non tornerà”, eppure nessun capo si intravede all’orizzonte. Quanto inciderà l’addio dell’ex Cavaliere nelle leadership anche degli altri partiti?
Che Berlusconi sia ancora il capo del centrodestra mi sembra difficile negarlo. È finita un’egemonia sul piano politico perché Berlusconi a lungo ha fatto le liste degli altri partiti alleati. Era il capo della Lega, di An e dell’Udc tant’è vero che quando uno di questi partiti cercava di rendersi autonomo, i rispettivi capi correvano grossi guai. Vedi Follini, Fini… Questa situazione non è replicabile perché adesso gli alleati di Berlusconi sono personaggi che puntano apertamente alla fine di questa egemonia. Quindi c’è ancora Berlusconi ma forse non c’è più il berlusconismo.
Come finirà quello che lei, sulle pagine de l’Espresso, ha definito il ‘Grande disincanto’ della sinistra?
A sinistra vedo crescere il disincanto, colpa della moltiplicazione dell’offerta politica di partiti, partitini, leadership e leaderini. Saranno molto interessanti le scelte che farà il presidente del Senato Pietro Grasso. Il rischio è che l’offerta dei partiti si moltiplica, ma la domanda non si vede e gli elettori di centrosinistra sono molto disillusi. Anche l’astensionismo, quindi, si sta facendo largo da quelle parti.
Chi è Marco Damilano?
É nato a Roma il 25 ottobre 1968. Laureato in Storia contemporanea, inizia a lavorare sul settimanale “Segno Sette”. Dopo la collaborazione con “Diario” e con il magazine del Corriere della Sera “Sette”, nel 2001 è assunto all’Espresso come cronista politico e parlamentare, che dirige dal 25 ottobre 2017. Scrive sul suo blog: «Considero il racconto della politica una buona lente di ingrandimento per conoscere l’Italia: un viaggio tra palazzi, strade, ristoranti, piazze, conventi, fabbriche e studi televisivi, ovviamente. E un punto di vista privilegiato per provare a indagare sul fattore umano che muove il mondo: alto e basso, miseria e nobiltà, tragedia e farsa».