La deriva del giornalismo italiano: più rispetto per le persone, meno scoop e “pornolismo” su giornali e Tv. Non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze
Occhio ragazzi che andiamo a sbattere. Anzi, ci siamo già fatti male. Malissimo. Ci stiamo facendo calpestare dalla morbosità, pure dalla pornografia, dalla voglia matta di raccontare l’attualità guardando dal buco della serratura. Ma la favolosa cronaca nera non è una commedia sexy all’italiana dov’è di scena l’avvenente Edwige Fenech da spiare sotto la doccia. Vero, ci ricorda Albert Camus, che i giornalisti sono gli storici dell’istante. Ma di questi istanti è necessario, sempre, raccontare tutto? C’è, deve esserci, dobbiamo imporcelo come dogma nella nostra agenda lavorativa, il momento in cui dobbiamo chiudere gli occhi. Non certamente per omissione o per pudore, ma per pietà. Perché questo nostro giornalismo – italiano s’intende – da oltre un ventennio è sempre più arrapato, la cronaca nera non racconta più i fatti, ma ne offre resoconti pornografici, scandalistici. Vuole sempre offrirci uno choc, disgustarci finché può. Vero, verissimo: non è più la stampa, bellezza! Almeno quella che può fregiarsi di avere un’etica, che è suprema a ogni regola deontologica. Perché i valori nascono con noi, le regole sono state pensate e applicate dopo.
Se la cronaca diventa abuso, allora fatemi scendere da questo maledetto treno senza conducente che è stato lanciato a folle corsa verso l’ignoto. Dai tempi del delitto dell’universitaria Marta Russo nel 1997, passando al caso di Cogne fino ai giorni nostri con l’atroce fine di Sarah e la “famiglia terribile” di Avetrana, la morte di Meredith, la complessa storia di Yara, il tormentato ‘omicidio di Noemi e gli stupri di Rimini, i cronisti di nera (e con loro quelli di giudiziaria) ci hanno drogato di particolari che, francamente, i lettori non sentivano la necessità di conoscere. Se è vero, com’è vero, che il giornalista è un medium che si pone tra i fatti e i lettori, perché ci sono giornali e tv che – parlando delle violenze di Rimini – hanno vergognosamente resocontato di “doppie penetrazioni”, di corpi brutalmente violati? Come se qualcuno – ancora oggi – avesse ancora bisogno di sapere le fasi di uno stupro per avere, forse, un sussulto d’eccitazione nei pantaloni sfogliando le pagine o cambiando canale. Non è il giornalismo che mi hanno insegnato e continuano a insegnarmi i più grandi. Stiamo diventando assassini di anime, passando sopra i corpi delle vittime e diventando noi i veri carnefici. Meno clamore, più riserbo. Meno scoop, più rispetto. Così il nostro cinismo sta facendo nascere un pubblico ignobile. Lucidissima e condivisibile l’analisi che nei giorni scorsi, sulle colonne di Repubblica, Francesco Merlo ha tracciato sotto il titolo “L’autopsia in prima pagina, la cronaca diventa abuso”, che merita di essere riportata: «Ci sono doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più davanti alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze (…). Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per ‘necessità di sapere’».
Con i nostri “processi” stampati sulle pagine dei giornali e lanciati in onda nelle maratone tv – e la micidiale trasposizione di questi contenuti che il web divora e diffonde – abbiamo innescato un caotico circo mediatico-giudiziario, aizzando folle, distorcendo verità, generando pattumiera e triturando l’obiettività dei fatti. Turiamoci il naso, tiriamo lo sciacquone, mettiamo il coperchio al secchio dell’immondizia. Serve questo genere “splatter” che dalla cinematografia passa al sanguinario giornalismo per aumentare l’indignazione dei lettori, per renderli partecipi di un fatto? È preoccupante questo giornalismo selvaggio, che osanna i mattinali, innalza verso il cielo i verbali – le famigerate “carte”, quelle che esigono capiservizio, capiredattori e direttori – e smarrisce il senso della ricerca della verità, pur consapevoli dell’orrore e della brutalità che spesso la caratterizza. Che fare, quindi? Forse ripartire da un interrogativo del pensatore francese Michael Focault sul giornalismo filosofico: «Non vi sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: «Chi siamo noi al momento attuale? (…). Ma penso che tale domanda sia anche a fondamento del mestiere del giornalista». Viviamo nella società della paura in cui trionfa la narrazione del male, dove nelle redazioni si coltiva una “scrittura emotiva” della cronaca nera che spettacolarizza, enfatizza i fatti. Facendo posto alle autopsie da sviscerare, al cosiddetto pornolismo. È qui che il giornalismo, quello autentico, perde le sue funzioni sociali. Spegniamo i riflettori sulle vite delle persone. Torniamo a raccontare i fatti, umanizziamo meglio le nostre cronache, stando attenti ai rischi di sbandare in curva se acceleriamo. Non trasformiamo i luoghi del dolore – ricordate il naufragio della Concordia sull’isola del Giglio? – in location turistiche. Non è il sensazionalismo che alimenta la vita dei giornali, dei giornalisti. Nella società moderna dell’incertezza – come l’ha classificata il compianto sociologo polacco Zygmunt Bauman – piuttosto abbiamo bisogno di aggrapparci a una incontrovertibile certezza: se togliessimo il grassetto ai giornali, quanto più tranquillo sarebbe il mondo.