San Michele protettore e patrono di Caltanissetta: non è un santo come gli altri. Non è stato mai un essere umano, è un arcangelo, da sempre. Ha guidato e ha vinto la battaglia contro Lucifero e gli angeli ribelli, e da allora è il simbolo della lotta contro il male, garante della giustizia, icona di una fede militante che richiede impegno, presuppone la responsabilità di scegliere, di schierarsi, di difendere il Bene in prima persona, nel rischio del conflitto.
Niente di più distante dall’identità collettiva dei nisseni che alla sua protezione si sono affidati, sin da quel 1625 in cui apparve a Fra’ Giarratana per salvare la città dalla peste. Niente di più diverso dall’indole accomodante, un po’ accidiosa dei suoi protetti, che forse scegliendolo si sono affidati a qualcuno talmente imparagonabile agli umani da esimerli dall’obbligo dell’imitazione.
Delegare al comandante dell’esercito celeste, puro spirito, la difesa della propria comunità è stata un’operazione vincente nell’antropologia di un popolo desideroso di riscatto ma povero dell’autostima necessaria per conquistarlo con le proprie forze. Da secoli, tra alterne vicende, fino ai nostri giorni.
Caltanissetta prima di San Michele aveva come protettore il Signore della Città, il Crocifisso annerito che ancora oggi sfila il Venerdì Santo nella processione più intensa e sentita della sua vita collettiva, simbolo di quella sofferenza estrema del popolo che la divinità del suo protagonista rivestiva di dignità e di valore. Ancora una volta un patrono divino, anche se colto nella esperienza umana della Croce, non un essere umano capace di interpretare con le sole forze umane la santità.
11.811 sono i Santi protettori riconosciuti dalla Chiesa cattolica e fino al 1630 bastava “Voxpopuli, Vox Dei” perché una comunità proclamasse il patronato di un Santo a cui dedicare la propria città. E Caltanissetta all’inizio del ‘600 stava vivendo una storia di espansione e di sviluppo della propria economia, mentre il potere feudale dei Moncada, dopo avere raggiunto l’apice, cominciava a declinare.
I Moncada pochi decenni prima avevano chiamato a Caltanissetta i Gesuiti, che avevano istituito il Collegio degli Studi (unica realtà di questo tipo nell’interno della Sicilia) e costruito la Chiesa di S. Agata. Ma la presenza dei Gesuiti rivolgeva la propria missione più alle classi dirigenti che al popolo lavoratore, e quando si scelse il nuovo Santo patrono, dopo il pericolo scampato della peste, si volle San Michele, caro ai Francescani Cappuccini, che dei Gesuiti costituivano il contraltare nell’opera di evangelizzazione e di orientamento spirituale della società, in quei secoli di Controriforma in cui spesso la dialettica dei carismi e delle opzioni spirituali si dispiegava secondo lo schema della strategia militare.
L’identità collettiva si orientava quindi nella direzione opposta rispetto al segno voluto dai signori feudali, e significativamente la chiesa madre, Santa Maria la Nova (non ancora Cattedrale) veniva dedicata a San Michele accanto alla Vergine Immacolata, quasi ad anticipare la narrazione dell’Apocalisse, che sarebbe stata evocata dagli affreschi del Borremans sulle volte un secolo dopo.
Intorno a questo simbolo di spiritualità militante si è costruito in quattro secoli un legame sociale resistente, identificativo della comunità e della sua volontà di resistenza, rappresentanza simbolica della sua identità spirituale a partire dall’epoca in cui Caltanissetta si strutturava come città, dedicandogli momenti forti della vita cittadina ed esperienze collettive, in sintonia con quanto si sviluppava, nell’iconografia e nella devozione, nel resto d’Europa e perfino nel lontano Oriente islamizzato in cui l’Arcangelo Michele è venerato.
Il culto di San Michele si iscrive infatti nell’orizzonte della storia europea, storia sociale culturale oltre che religiosa, come dimostrano le innumerevoli testimonianze che le opere d’arte prodotte in ogni parte d’Europa rappresentano. In ogni paese cristiano l’Arcangelo Michele si ritrova come filo conduttore di una riflessione condivisa e unificante sulla giustizia nella lotta tra il bene e il male.
La Via Micaelica, itinerario di uno dei pellegrinaggi più importanti del mondo cristiano, seguito da milioni di devoti dall’alto Medioevo in poi, segna sul territorio europeo una sorprendente diagonale che unisce la Puglia del Gargano, porta dell’Oriente, dove S. Michele apparve in una grotta nel V secolo, con la Normandia di Mont-Saint-Michel, passando per Roma e per il Piemonte della Sacra di S. Michele. Un processo secolare di identificazione mobile intorno al culto micaelico che ha contribuito a costruire l’Europa nell’immaginario collettivo dei suoi abitanti.
L’identificazione collettiva dei nisseni ha quindi il respiro della dimensione europea, intrecciando il senso di appartenenza della nostra comunità alle radici storiche di uno spazio culturale più vasto.
San Michele è il liberatore: dalla peste e poi dai pericoli della miniera, come testimonia la devozione degli zolfatari e i loro ex-voto per le vite salvate nel sottosuolo. È il consolatore, vicino a Maria nell’ora della morte, per aiutare a ottenere il perdono dei peccati, e la bilancia nelle sue mani, per “pesare” le anime, non è simbolo di una giustizia severa, ma della misericordia di Dio che sovrabbonda e supera i limiti umani.
Ma soprattutto è vittorioso: ha sconfitto il nemico più terribile, quasi sempre invincibile per gli umani, e mentre il demonio sta sotto i suoi piedi, incatenato, la speranza della salvezza si offre alla venerazione popolare con una forza incontenibile.