Il Procuratore generale Sergio Lari parla di Giovanni Falcone anche in una veste meno conosciuta di magistrato impegnato nell’associazione “Movimento per la Giustizia”, tracciando quella figura di magistrato preparato e garantista, astuto e geniale, capace di prosciugare l’acqua dove nuotano corruzione e mafia, fino a diventare il nemico numero uno di cosa nostra.
Spenti i riflettori del tributo per i 25 anni dalla strage di Capaci, avvenuta il 23 maggio del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, ciò che rimane è l’analisi oltre il ricordo. Ancor meglio se quella di un testimone diretto degli ultimi 25 anni di antimafia come l’attuale Procuratore Generale di Caltanissetta, Sergio Lari. Dal 2008, anno in cui il Csm gli affidò la guida della Dda di Caltanissetta, ha indagato, insieme a un pool di magistrati e investigatori, ricostruendo le trame mancanti della verità giudiziaria sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nella strage di Capaci scoprendo che il tritolo utilizzato per la strage era stato recuperato dal mandamento di Brancaccio, prelevato da bombe sottomarine inesplose della seconda guerra mondiale. Per la strage di via D’Amelio, scoprendo quello che il magistrato definì “il più colossale depistaggio della storia Italiana” cristallizzatosi nei processi Borsellino uno e Borsellino bis dov’erano finiti all’ergastolo degli innocenti mentre alcuni mandanti ed esecutori incredibilmente non furono sfiorati. Tra loro il boss di Resuttana Salvino Madonia, recentemente condannato in Corte d’Assise all’ergastolo. Per quel depistaggio, tra gli altri, un innocente completamente estraneo a contesti di mafia, Gaetano Murana, pur oggi libero, è costretto ancora a definirsi “un ergastolano in attesa di revisione della condanna”.
Sergio Lari, prima di lasciare il testimone al nuovo procuratore Amedeo Bertone, ha firmato l’inchiesta che ha portato a iscrivere Matteo Messina Denaro tra i mandanti delle stragi e avviato l’inchiesta sul sistema delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Sulla cosiddetta mafia dell’antimafia, il Pg nisseno dice: “Non ci sono intoccabili”.
Procuratore, quella delle stragi del 1992 è stata una stagione che mise a serio rischio la democrazia in Italia. Lei lo ha ribadito in questi giorni anche ai giovani, così com’è scritto in inchieste e recenti sentenze circa le finalità terroristico mafiose.
“Bisogna considerare che nel periodo che va dagli anni ’80 agli anni ’90 assistiamo alla presa del potere dei corleonesi. Un conflitto sanguinoso in Cosa Nostra, oltre mille morti solo in provincia di Palermo. In questa mattanza si registrarono uccisioni di uomini delle istituzioni. L’elenco è lunghissimo, dal capo della mobile, Boris Giuliano, reo di avere indagato su un vasto traffico di stupefacenti, al presidente della Regione Piersanti Mattarella, passando per l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa, del capitano Basile, il procuratore Costa, il Giudice Chinnici. Un’esecuzione in sequenza di tanti servitori dello stato. Ma si trattava di omicidi chirurgici che indebolirono l’apparato dello Stato e consentirono a Cosa nostra di diventare l’organizzazione più potente del panorama dei paesi civili del mondo occidentale. Nessuna organizzazione criminale aveva avuto la potenza militare e la capacità economica, derivante dai traffici di stupefacenti, estorsioni e controllo dell’economia, di mettere letteralmente in ginocchio lo Stato. Cosa Nostra era all’apice della sua potenza. Quindi quei magistrati che cercavano di arrestare questo fenomeno, a me ricordano Ettore che sotto le mura di Troia si apprestava a fermare un nemico invincibile, Achille. Una guerra impari. Per uccidere Falcone sull’autostrada di Capaci Cosa nostra si era procurata una quantità impressionate di tritolo ed esplosivo di cava, mettendo in campo quattro mandamenti con decine di uomini d’onore. Un esercito contro un uomo solo che camminava con una blindata e quattro uomini di scorta. In quel momento, quindi, l’organizzazione criminale egemonica si trovò di fronte pochi uomini, animati soltanto dalla voglia di difendere le Istituzioni. Ecco perchè oggi, a distanza di tempo, per tanti giovani non è facile capire quello che si passò in quel momento.
Io sono entrato in magistratura nel ’75 e allora non si sapeva neanche dell’esistenza di Cosa Nostra. Di cui abbiamo appreso a partire dal luglio ’84 quanto Tommaso Buscetta racontò a Falcone e De Gennaro qual’era la situazione.
Oggi abbiamo una situazione completamente diversa. Ci sono le Dda, la Dia, la Dna e una legislazione all’avanguardia che ci hanno consentito in 25 anni di mettere in ginocchio l’organizzazione mafiosa. Quindi si potrebbe coltivare l’illusione che tutto sia finito, ma in realtà secondo me bisogna sempre tenere alta la guardia. Perchè se Cosa Nostra oggi è stata costretta dall’offensiva dello Stato a rinunciare allo scontro frontale, ed è quindi ripiegata nella strategia dell’inabissamento, questa è stata una scelta obbligata. Però basta aprire i giornali e leggere il continuo arresto dei fiancheggiatori di Messina Denaro, delle indagini a Milano in cui i mafiosi di Catania riciclano ingenti flussi di denaro in attività lecite, per rendersi conto che l’organizzazione ancora funziona, che riesce a investire i soldi dei traffici nell’economia. Quindi il rischio che questa organizzazione nel tempo possa rialzare la testa è elevato. Certo oggi possiamo dire che la scelta fatta da Riina e dai vertici, di dichiarare guerra allo Stato, scelta dovuta agli esiti del maxi processo, si è rivelata sbagliata per Cosa Nostra. Forse se non ci fosse stato il sangue di Capaci e via D’Amelio e di tanti appartenenti alle forze dell’ordine oggi non avremmo avuto la legislazione che abbiamo. Certo, ci saremmo augurati che il ripristino di un minimo di legalità in Italia non fosse dovuto passare sul sangue di tanti eroi. Perchè così si possono definire”.
Qual’era il suo rapporto di collaborazione con Giovanni Falcone?
“La mia collaborazione era più che altro un rapporto di amicizia nato sul versante associativo. Negli anni ’80 da pretore a Palermo fui uno dei fondatori, con Falcone, del Movimento per la Giustizia. E’ un aspetto poco conosciuto di Falcone. Perchè dopo le bocciature al Csm ci si rese conto che il modello di magistrato tuttofare non fosse più funzionale alle esigenze del Paese. Non era possibile che il magistrato passasse indifferentemente dal civile al penale, dal giudicante al requirente. Falcone a Milano fece un importante intervento dal titolo “La professionalità, le professionalità” in cui sosteneva la necessità che un magistrato acquisisse specifiche professionalità, ad esempio da Pm o giudice, e che occorressero nuove modalità di approcciarsi all’antimafia. Si faceva portatore di importanti innovazioni nel modo di valutare la carriera dei magistrati che si basasse non soltanto sull’anzianità, ma anche degli specifici meriti acquisiti. In questo percorso di rinnovamento io mi trovai accanto a lui e da questo si passò alla frequentazione personale. Giovanni Falcone tenne in braccio mia figlia appena nata. Poi io contavo di entrare in Procura per lavorare con lui, senonché nel marzo del ’91 egli decise di andare al Ministero. Ho conservati i verbali del neonato Movimento per la Giustizia, in cui discutemmo se fosse opportuno che Giovanni lasciasse il posto a Palermo piuttosto che svolgere il ruolo di capo degli affari penali.
Il gruppo si divise. Giovanni e Beppe Fici si astennero. Circa sei, sette votarono perchè restasse ed io feci parte invece di quelli che ritenevano che a Roma si conducesse una battaglia di più ampio respiro, e fu una scelta vincente. Falcone a Roma in un anno riuscì a varare la norma sulla Dda, sulla Dna, sul 41 bis e sui collaboratori di giustizia ovvero i pilastri su cui si basò tutta la legislazione antimafia che ha consentito i successi nel contrasto a fenomeno mafioso”.
In cosa consisteva il metodo Falcone, oggi metodo investigativo di tutta l’antimafia?
“Era l’anticipazione del funzionamento delle DDA. L’articolo 70 bis dell’ordinamento giudiziario, trasmigrato nel 102 del 2011 fu scritto di suo pugno ed era la traduzione normativa del funzionamento del pool antimafia, mutuato dai pool investigativi che contrastarono il terrorismo. Mentre prima le indagini le facevano i singoli magistrati, per cui eliminando il singolo magistrato si doveva partire da zero, il pool prevedeva che le indagini fossero svolte da più magistrati che si dividevano i compiti, scambiandosi idee e decidendo collegialmente le strategie di intervento, accelerando così i risultati. Questo sistema non prevedeva la parcellizzazione dei singoli omicidi, ma ogni singolo reato veniva inserito nella storia dell’organizzazione Cosa nostra che veniva vista come un unico fenomeno criminale verticistico a partire dalla Cupola regionale, per cui ogni singolo fatto delittuoso, come correttamente indicavano i collaboratori, trovava una sua lettura all’interno dell’organizzazione criminale.
I termini teorema Buscetta e il metodo Falcone erano già pubblicizzati e se ne parlava a quel tempo. Poi c’era qualcuno naturalmente che vedeva quello come un protagonismo ma che non dipendeva da Falcone, ma dal fatto che per la prima volta si facevano processi come il Maxi processo: 300 capi di imputazione e 121 omicidi, tutti i capi mandamento di Cosa Nostra, quindi per Cosa Nostra era un affronto. La fine dell’impunità e della segretezza, e per la prima volta Cosa Nostra poteva ipotizzare di essere sconfitta dallo Stato. L’uccisione di Chinnici voleva essere un segnale ma al suo posto venne Caponnetto che invece fece del pool la sua bandiera”.
Lei ha detto che al suo arrivo a Caltanissetta mai si sarebbe immaginato di trovarsi dopo tre mesi le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che raccontava un’altra verità sulla strage di via D’Amelio. Siamo sicuri che indipendentemente da Spatuzza lei a Caltanissetta sulle stragi avrebbe comunque indagato.
“Sicuramente provenivo da una storia personale di dieci anni di aggiunto a Palermo che mi avevano consentito di avere una conoscenza approfondita di Cosa nostra di Trapani, Agrigento e Palermo. Sapevo che erano pendenti procedimenti volti ad approfondire aspetti oscuri di quelle vicende. Quindi ero venuto qui con la volontà di approfondire questi temi, uno per tutti il problema dell’agenda rossa che mi sono trovato sulla scrivania. Feci un ricorso alla Cassazione contro il “non doversi procedere” del Gup sulla richiesta di archiviazione per il capitano Arcangioli. Quindi mi trovai in pista su queste vicende, per trovare le tessere mancanti, le piste da approfondire. Ma non mi sarei aspettato che ci potessero essere stati nei processi Borsellino uno e bis errori giudiziari così clamorosi e che averei dovuto scagionare undici persone di cui sette all’ergastolo, e Scarantino a 18 anni di reclusione. Questo non me lo aspettavo e non nascondo che è stata un’impresa difficile, ripescare nel marasma di centinaia di faldoni per trovare le tessere false che qualcuno aveva inserito e trovare quelle mancanti in uno scenario così complesso, a distanza di anni da quei fatti. Ho dovuto peraltro ricostruire 13 anni di processi, con alcuni annullamenti, nel frattempo con la collaborazione di Giuffrè che io conoscevo poiché avevo coordinato le indagini per la sua cattura. Però il segmento Stragi lo aveva condotto Caltanissetta e ho dovuto riprenderlo e rivalorizzarlo e venne fuori che i miei predecessori non si erano accorti che Salvo Madonia era sfuggito come mandante delle stragi.
A prescindere da Spatuzza, Tranchina e D’Amato, le nostre indagini hanno portato a stabilire le responsabilità come mandanti delle stragi di Salvino Madonia e Matteo Messina Denaro”.
Qualcuno in passato ha sottolineato che Spatuzza non aveva la caratura del capo. Lei ha spiegato recentemente che i pentiti raccontano soltanto frammenti che loro conoscono, la ricostruzione complessiva tocca ai magistrati.
“In Cosa Nostra non è che si raccontano tutto tra di loro, tutto avveniva per compartimenti stagni, questo spiega perchè su Capaci abbiamo scoperto le responsabilità di sette persone mai individuate prima, soltanto perchè si è pentito Spatuzza. Perchè prima si erano pentiti solo esponenti di San Giuseppe Jato o San Lorenzo. Brusca o Ferrante non potranno mai dirci cosa hanno fatto quelli di Brancaccio per reperire l’esplosivo. Quindi il compito investigativo generale spetta a noi investigatori. Spatuzza è stato nel ’95 anche capomandamento di Brancaccio, ma Spatuzza non era uno che sedeva al tavolo della commissione provinciale. Noi prendiamo segmenti conoscitivi che ci possono portare singoli collaboratori che operano dentro strutture segmentate, proprio per evitare che dalle collaborazioni di giustizia venga messa in ginocchio l’intera organizzazione. Poi il nostro compito è quello di ricostruire alla luce di tutto il complesso delle dichiarazioni quella che può essere la verità processuale, ovvero quella che possiamo dimostrare con elementi probatori al giudice, depurandola anche dai nostri convincimenti che possono nascere da elementi indiziari che non assurgono a livello di prova perchè mancano i riscontri”.
Nella recente sentenza per il processo Borsellino quater, nato dalla vostra inchiesta, il falso pentito Vincenzo Scarantino ha beneficiato della prescrizione grazie all’attenuante di essere stato “indotto” da qualcuno, con rinvio degli atti in Procura. Su questo qualcuno voi avete già indagato.
“E’ stata fatta un’indagine lunga e complessa e per i poliziotti iscritti nel registro degli indagati è stata chiesta l’archiviazione perchè non sono stati ritrovati riscontri alle dichiarazioni di ex collaboratori la cui credibilità è pari a zero, come Candura, Andriotta e Scarantino. Per quanto suggestive le dichiarazioni, da sole non possono bastare per sostenere un’accusa in giudizio, fermo restando che rimane un capitolo aperto, suscettibile di essere rivalutato. Quello del depistaggio è una pista aperta, un tassello mancante. Una vicenda che ha visto l’esito negativo di questi processi, Borsellino uno e bis, di indagini che sono passate al vaglio di Pm e giudici. Detto questo sulla sentenza non dico nulla, bisognerà leggere le motivazioni per capire il pensiero del Giudice che avendo concesso l’attenuante che ha portato a dieci anni la pena massima per la calunnia, ha determinato una prescrizione che è maturata nel 2007, ancora prima che io arrivassi a Caltanissetta”.
Procuratore, parliamo un po’ di Caltanissetta. Lei ricorda l’eccezionale movimento “Scorta civica” nato all’indomani della notizia di minacce ai magistrati. Oggi è cambiato qualcosa?
“Non ho elementi per dire che il clima sia cambiato. Allora certamente è stato importante per la magistratura avere affianco la cittadinanza nel momento in cui alcuni magistrati, come il collega Giovanbattista Tona, furono oggetto di minacce pesanti. Quindi non posso dire che il clima sia cambiato, diciamo che non si sono verificati episodi di allarme per la magistratura che abbiano determinato la necessità di interventi assimilabili”.
Però non potrà negare che nell’opinione pubblica c’è un certo disorientamento anche a seguito di indagini aperte dalla Procura di Caltanissetta, alcune avviate quando lei ne era a capo, riguardanti esponenti dell’antimafia.
“Un certo disorientamento nell’opinione pubblica credo ci sia stato e credo che sia ricollegabile ad una serie di inchieste aperte anche dalla Procura di Caltanissetta che hanno fatto parlare di “mafia dell’antimafia”. Non voglio fare riferimenti specifici perchè ci sono processi e indagini in corso che hanno riguardato la magistratura e soggetti a suo tempo esposti nel contrasto alla criminalità organizzata. Non faccio nomi ma lei può capire a chi mi riferisco. Sicuramente tutto questo può avere creato un certo disorientamento nell’opinione pubblica. Però io a questo disorientamento dico che le indagini sono state aperte proprio dalla Procura di Caltanissetta e che rispetto a questo non esistono soggetti considerati intoccabili. La magistratura nissena ha dimostrato di mantenere fede al principio che la legge è uguale per tutti, anche su persone che potevano apparire come intoccabili e nei confronti delle quali è stata applicata la legge”.
Dottore Lari, per concludere le devo chiedere come mai ha lanciato un allarme terrorismo a Caltanissetta. Si riferiva forse al rischio di radicalizzazione di elementi oppure proprio al rischio attentati?
Non era questo il messaggio. Il rischio di radicalizzazione è emerso dalle indagini, fatte soprattutto in provincia di Enna, o il fatto che il tunisino autore della strage di Berlino sia passato da questo territorio. Quindi ci sono elementi che emergono da informazioni che ho assunto dalla Procura. Quando ci sono forti concentrazioni, il rischio radicalizzazione è concreto e dagli elementi in mio possesso, su cui non posso aggiungere altro, mi risulta che ci sono diverse indagini aperte nel territorio del distretto. Quindi bisogna tenere alta la guardia. Ma non intendevo dire che ci fosse rischio attentati nel territorio di Caltanissetta, perchè non ritengo sia di per sé un territorio ad alto rischio in particolare, ma ovviamente non ho la sfera di cristallo”.