Amedeo Bertone: i mandanti occulti? Le suggestioni non bastano, servono prove.
A venticinque anni dalla strage di Capaci, nella piccola e periferica Procura della Repubblica di Caltanissetta c’è un manipolo di magistrati che, dopo i processi con decine di condanne, non ha mai smesso di indagare sulla morte di Giovanni Falcone e misteri connessi, come sulla strage di via D’Amelio in cui due mesi più tardi saltò in aria Paolo Borsellino, e relativi depistaggi. A guidarli, da poco meno di un anno, è arrivato il procuratore Amedeo Bertone.
Dottor Bertone, qual è il «bilancio giudiziario» che si può trarre sulla strage di Capaci?
«Il bilancio del lavoro giudiziario può definirsi certamente positivo. Ci sono state trentotto sentenze di condanna passate in giudicato e il processo Capaci-bis ha ampliato il novero delle responsabilità. Ne consegue che, benché la ricerca della verità da parte della Procura proseguirà in ogni direzione, possiamo ritenere raggiunti importanti punti fermi sulla ricostruzione dei fatti e l’individuazione dei colpevoli. A questo proposito, non posso fare a meno di ricordare che il 18 maggio scorso la professoressa Maria Falcone, nel corso di un incontro svoltosi in questa città per commemorare il fratello Giovanni, ha dato atto dello straordinario lavoro svolto dai magistrati di Caltanissetta ricordando, fra l’altro, come Giovanni Falcone avesse “il culto della prova”, strumento imprescindibile per il raggiungimento della verità».
Alla fine di due processi, e con un terzo appena cominciato a carico di Matteo Messina Denaro, che cosa resta da scoprire sull’attacco mafioso sferrato allo Stato con le stragi del 1992?
«Proprio l’avvio del processo a carico di Messina Denaro dimostra che la ricerca della verità da parte della Procura di Caltanissetta, attraverso una paziente opera di ricostruzione che mette insieme fonti dichiarative, risultanze di precedenti sentenze definitive e documenti, non si è mai fermata. L’ufficio ha esplorato in ogni direzione possibile, sia sulla fase esecutiva delle stragi che sulla fase ideativa ma, allo stato, nonostante le serrate investigazioni che saranno comunque proseguite, non sono emersi ulteriori elementi di prova nei confronti di altri soggetti, da sottoporre al vaglio di un processo».
Qual era il movente «terroristico» che Cosa Nostra perseguì con una strage tanto eclatante per uccidere Falcone, preferita da Riina rispetto all’attentato a Roma?
«Il movente terroristico è stato quello di destabilizzare il Paese al fine di individuare nuovi referenti per l’organizzazione mafiosa, essendo venuti meno i pregressi canali con il mondo politico a seguito dell’esito “infausto” per Cosa Nostra del maxi-processo. In particolare, l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, il 12 marzo 1992, forniva un segnale chiaro e inequivocabile di Riina alla politica. I “vecchi equilibri” erano saltati, e secondo lo scellerato proposito di Cosa Nostra dovevano crearsene di nuovi proprio attraverso la strategia stragista che, di lì a breve, avrebbe avuto inizio. Ma come è emerso nel corso del dibattimento Capaci-bis, la scelta di Riina di realizzare l’attentato in Sicilia, sospendendo la cosiddetta “missione romana”, è stata determinata solo da ragioni di “comodità” per Cosa Nostra, consistite nei positivi sviluppi della attività preparatoria all’attentato portata avanti da Giovanni Brusca e dal suo gruppo. In sostanza: a un certo punto Riina comprese le difficoltà di realizzare l’attentato a Roma e decise di compierlo a Palermo».
Ritenete che la presenza dei «mandanti occulti» sia ancora immaginabile, sebbene non provata sul piano giudiziario, oppure si può affermare che oltre la mafia non c’era altro nell’ideazione e preparazione della morte di Falcone?
«Innanzitutto occorre sgombrare il campo da un pericoloso fraintendimento terminologico che rischia di non tener conto delle fondamentali regole di Cosa Nostra, organizzazione che non può ammettere di farsi dirigere da altri; non possiamo parlare, dunque, di “mandanti esterni” a Cosa Nostra nella realizzazione delle stragi. Semmai può ipotizzarsi, come ha riferito il pentito Antonino Giuffrè, l’esistenza di “interessi convergenti” all’eliminazione di Falcone provenienti da ambienti esterni a Cosa Nostra: massoneria, servizi segreti deviati, opachi ambienti imprenditoriali. Resta da capire se questa “convergenza del molteplice” possa essersi tradotta in condotte penalmente rilevanti di ben individuati soggetti nella realizzazione della strage, e se possano acquisirsi elementi di prova sui quali fondare un processo. E gli elementi di prova sono ben diversi dalle suggestioni o dalle mere ipotesi. La nostra Procura ha doverosamente approfondito ogni spunto investigativo che, almeno in astratto, poteva ricondurre ai “concorrenti esterni”; penso alle ipotesi sul rafforzamento della carica esplosiva ad opera di terzi estranei a Cosa Nostra, o alla presenza sui luoghi della strage di soggetti legati ad ambienti dei servizi segreti deviati. Piste che però, dopo la capillare attività di riscontro, non hanno dato alcun esito».
Perché la strage di Capaci sembra più chiara e facilmente interpretabile di quella di via D’Amelio, sulla quale pesano i depistaggi che hanno portato a condannare degli innocenti scagionati solo di recente?
«Per la strage di via D’Amelio è accaduto qualcosa di peculiare che non si è verificato per la strage di Capaci. Verosimilmente, non hanno funzionato quei “fisiologici” meccanismi di controllo e verifica progressiva degli elementi acquisiti. In particolare, l’attività della polizia giudiziaria non è stata adeguatamente filtrata dal vaglio dell’ufficio inquirente e le risultanze delle indagini della Procura, nel loro complesso, non sono state adeguatamente valutate, fatta eccezione per il procedimento Borsellino-ter, dai giudici nei diversi gradi di giudizio. Solo nel giugno del 2008, a seguito delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la Procura di Caltanissetta è potuta ripartire con complesse nuove indagini per sciogliere alcuni nodi gordiani della strage di via D’Amelio; si è trattato di indagini complesse, non scevre da insidie, che hanno consentito di restituire la libertà ad innocenti detenuti e di individuare altri responsabili. Peraltro, ulteriori approfondimenti dovranno essere svolti con riguardo all’eventuale coinvolgimento di altri soggetti nella fase esecutiva».
Che cosa risponde a chi vi rimprovera di esservi fermati al “livello mafioso” nella ricerca dei responsabili delle stragi?
«Come ho detto, questo ufficio ha ricercato in ogni direzione la verità sulle stragi e continuerà a farlo con il consueto, straordinario impegno. Ma i processi si fanno su prove, non su suggestioni o meri indizi non suffragati da riscontri oggettivi. Non ci siamo fermati “al livello mafioso”, questa è una affermazione errata e malevola. Noi abbiamo investigato a tutto tondo. Sul “livello mafioso” abbiamo raggiunto prove che hanno consentito la pronuncia di sentenze di condanna; sugli altri possibili “livelli” abbiamo indagato in modo scrupoloso e serrato, acquisendo solo elementi “deboli e contraddittori” che non sono prove ma abbiamo ugualmente portato nei dibattimenti e sottoposto al vaglio dei giudici e delle altre parti processuali. È certo però che continueremo ad indagare in ogni direzione, perché nulla resti oscuro sulle stragi di Capaci e via D’Amelio». (di Giovanni Bianconi, fonte corriere.it)