Inter-Empoli è stata l’ultima, Campobasso-Fiorentina è stata la prima: nel mezzo centinaia di partite di calcio ed eventi sportivi raccontati con uno stile inconfondibile, ereditato dai grandi maestri di Radio Rai. Il giornalista appende il microfono al chiodo: spegnerà una voce che ha accompagnato i fine settimana sportivi di milioni di italiani. “Mi dedicherò alla lettura e all’opera, le mie più grandi passioni” dice al Fatto.it a 24 ore dall’addio.
Il saluto di Riccardo Cucchi alla conclusione della sua ultima radiocronaca del 12 febbraio 2017
L’inizio è spiazzante: “Ti ascolto”. Trenta e più anni di sue radiocronache e la prima frase di Riccardo Cucchi ribalta i ruoli. “In realtà il segreto di Tutto il calcio minuto per minuto è proprio quello: essendo un prodotto circolare, dobbiamo essere protagonisti e allo stesso tempo ascoltatori del racconto per capire quando è il momento di fermarsi o di interrompere un collega. Da questo discende l’attitudine ad ascoltare”. Sessantacinque anni ad agosto, la prima voce del calcio ai microfoni di Rai Radio1 va in pensione. Inter-Empoli sarà l’ultima partita durante la quale i “gentili radioascoltatori” potranno seguire la sua narrazione. La prima volta in cui Cucchi prese la linea fu in un Campobasso-Fiorentina di Coppa Italia: “Ezio Luzzi era malato, toccò a me”. L’esordio in Serie A risale al 1982, Roma-Ascoli. Da allora, un numero indefinito di partite (“Mai preso nota di quante fossero, Sandro Ciotti fu più bravo di me”), nove edizioni delle Olimpiadi con l’oro dei fratelli Abbagnale nel cuore (“Avevo accanto Giampiero Galeazzi, urlava come un ossesso”), il sogno irrealizzabile di seguire in diretta la maratonadi Londra 1908. E tanti momenti intimi da recuperare: “Ho due cose da fare domenica prossima, la prima senza microfono: pranzare finalmente con mia moglie e tornare ad essere quel bambino che a otto anni accese la radio e scoprì l’amore”.
Grazie a chi è scoccata la scintilla?
Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Nicolò Carosio e tutti gli altri straordinari artisti della parola. Con i primi radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto ho iniziato a sognare di fare questo mestiere, ci sono riuscito ed è una cosa meravigliosa.
La porta si spalancò nel 1979 grazie al concorso Rai.
Capo della commissione d’esame era Sergio Zavoli, una specie di papa per tutti noi. Durante l’orale mi chiese con quel suo tono ecclesiale: “Ma lei, se noi decidessimo davvero un giorno di assumerla, cosa vorrebbe fare?”. Osai rispondere che mi sarebbe piaciuto essere un giornalista sportivo. “E allora mi faccia vedere come racconterebbe una partita di calcio”, mi disse. Zavoli però non poteva sapere che fin da bambino giocavo a fare la radiocronaca con l’album delle figurine davanti, un registratore a bobina accanto e mio cugino a fare il secondo campo. Insomma, quel giorno ero abbastanza preparato.
Ricordo la prima, Campobasso-Fiorentina. Accade per caso. Ezio Luzzi aveva la febbre alta e toccò a me. Poi ho perso il conto. Sandro Ciotti fu molto più bravo: in un’intervista disse il numero esatto di partite che aveva seguito. Io non ho mai preso nota. Ma lui aveva il vantaggio che, ai suoi tempi, si giocava solo la domenica, al massimo il mercoledì si seguiva una partita di coppa. Quando nel 1994 diventai una prima voce, anticipi e posticipi iniziavano a moltiplicarsi. Oggi non è più sufficiente contare le settimane per risalire al numero di partite raccontate.
Prima degli esordi al microfono, la Rai affiancava i giovani ai radiocronisti dell’epoca. Lei si è formato accanto ad Enrico Ameri. Un segreto che ha rubato?
Eravamo in cabina con loro, silenziosi. Il nostro unico compito era imparare il mestiere. Dovevamo capire come preparavano le partite, come impostavano il racconto. La mia prima volta accanto ad Ameri fu per un Milan-Juventus. Ero un ragazzino e anche parecchio emozionato. Mi permisi di chiedere: ‘Maestro, ma cosa deve fare un radiocronista prima di iniziare una diretta?”. Mettendomi una mano sulla spalla, sorrise e rispose: “Vai in bagno, che dopo non ne hai il tempo”. Un insegnamento che ho seguito pedissequamente.
La prima radiocronaca di Serie A?
Fu un Roma-Ascoli, 2-1, stadio Olimpico. Era il 1982, la Roma vinse poi lo scudetto. Mi trovai in scaletta dopo Ameri, Ciotti, Provenzali e Ferretti. Mi tremavano le gambe. Andò bene, per fortuna.
Quale giocatore l’ha esaltata più di ogni altro?
Diego Armando Maradona, una meraviglia. Un gioiello, mai visto niente di simile dal vivo. Ricordo una partita in particolare, a Como. La tribuna stampa era accanto al terreno di gioco, si coglievano i dettagli: la velocità e la leggerezza con cui percorreva il campo, malgrado non fosse magro. Ero esterrefatto e lo sono ancora oggi se ci ripenso. Il più grande in assoluto.
L’allenatore più garbato con il quale ha avuto a che fare.
Osvaldo Bagnoli, un maestro di semplicità e umiltà. Aveva la grande capacità di mettere a proprio agio i giornalisti e lasciava che parlassero di calcio. Spesso la domanda di un cronista, specialmente giovane come me allora, se è tecnica, può essere interpretata in maniera fastidiosa. Osvaldo invece rispondeva con leggerezza, dandoti importanza. E sapeva spiegare. I suoi interventi in radio erano delle lezioni per noi e per gli ascoltatori.
La squadra che più l’ha divertita durante le radiocronache?
Il Milan di Sacchi era meraviglioso: meccanismo perfetto, automatismi straordinari. Uno spettacolo della natura. Devo dire però che anche le squadre allenate da Zeman avevano un tasso altissimo di spettacolarità. Ho visto il suo Licata, in B, giocare un calcio incredibile.
Gli stadi sono una cornice importante per il vostro lavoro. Qual è il più coinvolgente?
In Italia, il San Paolo di Napoli. Penso che concordino tutti i colleghi. Quel pubblico ti travolge, ti esalta, ti mozza il fiato. È davvero il dodicesimo uomo in campo, capace di avvisare i calciatori quando arriva un avversario da dietro. La loro partecipazione ti spinge a dare il massimo, anche al microfono. La nostra postazione è sospesa: quando il pubblico salta, trema. All’estero, il Santiago Bernabeu incute paura. Ricordo una volta da secondo di Ameri: avevo il compito di intervistare i giornalisti della carta stampata durante le pause di gioco. Ma, nonostante indossassi la cuffia, non riuscivo a sentirli.
C’è una partita che avrebbe voluto raccontare ma spettò a un collega?
Con permesso, lascio il mondo del calcio. Per ovvie ragioni anagrafiche non ho potuto, ma mi sarebbe piaciuto seguire la maratona di Dorando Pietri a Londra 1908. Se in quell’epoca ci fosse stata la possibilità di raccontarla in diretta, trasferendo le emozioni e lo sviluppo psicologico, credo che sarebbe stata la radiocronaca più bella del mondo, quella che tutti avrebbero voluto riascoltare per sempre. È l’emblema dello sport, del sacrificio, anche dell’amicizia che per sorreggerti finisce per danneggiarti. Fu molto esaltante seguire la maratona di Seul 1988, quando Gelindo Bordin entrò da solo nello stadio. Non immagino cosa avrei potuto dire raccontando il dramma di Pietri.
Più emozionante raccontare un successo calcistico o un oro olimpico?
Il calcio a volte ti respinge un po’, specie quello moderno, perché i protagonisti sono lontani da noi. In altre epoche era possibile andare negli alberghi, parlare con gli allenatori subito dopo il pranzo pre-partita. La Rai lo faceva tutte le domeniche all’interno di Anteprima Sport. Ora non è più così. Durante i Giochi, invece, racconti le storie e le emozioni di ragazzi tutto fuorché milionari, che praticano sport soltanto per vincere quella medaglia. La più emozionante di tutte? La scherma mi ha regalato momenti esaltanti con Mauro Numa, Giovanna Trillini e Valentina Vezzali, ma l’oro dei fratelli Abbagnale a Los Angeles conserva un posto speciale nei miei ricordi: avevo accanto Giampiero Galeazzi che urlava come un ossesso.
La cronaca delle Olimpiadi è uno dei pochi momenti in cui anche in radio ci si lascia prendere dall’aggettivazione. Nel calcio, il vostro mezzo ha mantenuto un racconto semplice e lineare, nudo e concreto. Solo il gol di Fabio Grosso contro la Germania e il suo rigore in finale l’hanno spinta un po’ più in là.
Lo dico nell’ottica dell’ascoltatore: è giusto lasciarsi andare solo se c’è la Nazionale. Se racconto una partita di due squadre italiane devo alzare il tono della voce allo stesso modo, l’obiettività è anche questo. Durante i Mondiali di undici anni fa, invece, l’ebbrezza e la gioia mi hanno trascinato oltre ogni confine razionale e logico. Chi pensava che l’Italia vincesse il titolo? La notte dopo la finale non chiusi occhio. Passeggiai per le vie di Berlino fino al primo collegamento con il giornale radio del giorno dopo.
Si racconta che lei sia stato il deus ex machina di tutte le trattative per i diritti radiofonici. E Radio Rai è davvero la casa dello sport.
È stato un mio puntiglio. La Rai si può criticare o prendere a schiaffi, ma resta la mia casa e sono legato soprattutto all’idea del bel servizio pubblico. Chi non può pagare un abbonamento alle pay-tv deve avere nella radio una valida alternativa. Ogni volta che raccontiamo lo sport sottolineiamo il nostro ruolo di servizio pubblico. Per questo mi sono battuto come un leone per riuscire ad avere un’offerta ampia. Certo, rispetto alla televisione, per noi il percorso è stato più facile poiché fino ad oggi non abbiamo mai avuto un vero competitor e i nostri diritti hanno un prezzo irrisorio rispetto alla tv, che paga anche la concorrenza dei giganti privati. Ma non dobbiamo mai perdere di vista che un evento trasmesso da noi per gli ascoltatori non ha un costo. Spero che lo tenga presente chi seguirà le trattative dopo di me.
Adesso avrà parecchio tempo libero. Come lo impegnerà?
Sono innamorato della letteratura sudamericana e, più in generale, un divoratore onnivoro di libri. Credo di non aver mai iniziato un viaggio senza almeno un romanzo in valigia. E poi essendo un melomane, amante in particolare di Puccini e Wagner, girerò per teatri vedendo un po’ di opere. Venerdì abbiamo fatto un brindisi di saluto con i colleghi. Hanno evitato di regalarmi targhe o microfoni d’argento, cose terribilmente tristi, preferendo due biglietti per la Madama Butterfly, a Torre del Lago, durante il Festival Puccini. Direi che dopo quarant’anni passati fianco a fianco, hanno imparato a conoscermi.
(di Andrea Tundo, fonte ilfattoquotidiano.it)