CALTANISSETTA – Dopo la guerra, ancora bambina, abitavo nel quartiere Provvidenza. Tutti i nisseni abitavamo dentro la cerchia del centro storico, pochissimi possedevano un’automobile e si camminava esclusivamente a piedi, nei vicoli tra le case strette l’una all’altra, per scendere al mercato e la domenica per andare a passeggiare in piazza.
Nelle belle giornate, gran parte della vita quotidiana si svolgeva nel vicolo: i bambini giocavano, le donne chiacchieravano sedute davanti le porte, i venditori ambulanti offrivano la loro merce in grandi ceste o sul carretto.
Sulla via Barone Lanzirotti, quasi difronte casa mia, vi era una figuredda, il nome affettuoso che in siciliano si dà alle edicole votive. Ce ne erano tante sparse nel centro della città, una sorta di reticolato religioso che dai muri delle case invitavano il passante a fermarsi per una preghiera. Spesso erano delle nicchie, scavate nella facciata di un’abitazione,dentro le quali era posta un’immagine sacra – quasi sempre una stampa popolare – circondata da vari oggetti, come statuine, rosari, fiori di stoffa, ceri…
Le edicolette votive che sorgevano fuori dal tessuto urbano avevano un’altra forma ed un’altra destinazione. Erano cappellette, piccolissime chiese, che accompagnavano con un percorso di preghiera e quasi di protezione il contadino che si recava nei campi a lavorare o il montanaro che si inerpicava sui sentieri di montagna. Qui a Caltanissetta segnavano il cammino degli zolfatari che si recavano in miniera e si fermavano davanti a ciascuna cappelletta invocando l’aiuto di Dio per poter tornare a casa sani e salvi.
Le figuredde dei vicoli avevano una funzione più familiare e domestica: era la presenza del Sacro nella vita di tutti i giorni. Durante il mese di dicembre, noi bambini assistevamo con gli occhi spalancati ai preparativi per il Natale che arrivava. Gli uomini prendevano le scale e adornavano di murtidda, arance e nespole d’inverno le figuredde dei vicoli. Era un miracolo veder fiorire da quelle mani ruvide e callose un trionfo di colori intorno all’immagine sacra. E si faceva una ingenua e benevola gara a chi riusciva meglio, a quale figuredda era più bella e meglio addobbata. Che profumo facevano la mortella e le arance e le nespole appese allo spago accanto al viso di Gesù Bambino! La mortella, caratteristica della macchia mediterranea, è molto decorativa con le sue foglie verdi e resistenti e le sue piccole bacche bianche. E suquel verde spiccavano il rosso delle mele, l’arancio e il giallo degli agrumi. Era una festa di colori e di odori assai lontana dalla tristezza delle palline di plastica colorata che usiamo oggi.
E la sera poi veniva il ciaramiddraru e suonava la cornamusa dinanzi alla figuredda. Non vi erano altri suoni, niente televisori accesi o clacson di macchine: la nenia dolce delle cornamuse si diffondeva leggera per tutto il quartiere e noi ci rendevamo conto che Natale era alle porte.
Per nove sere di fila tutte le donne del cortile o del vicolo si riunivano per recitare il rosario e cantare la novena di Natale, in una casa ospitale, stringendosi intorno ad un quadro della sacra famiglia, adorno anch’esso di murtidda.
Perché per nove giorni? Perché la Madonna e gli Apostoli riuniti nel cenacolo pregarono per nove giorni dopo l’Ascensione di Gesù prima che scendesse lo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste.
Era una scena vedere le donne che si recavano presso la vicina per la Novena, avvolte nello scialle pesante, spesso recando con sé la sedia e il tancino, il secchiello colmo di braci ardenti, con cui riscaldarsi le mani.
Dentro le case e dinanzi alle porte ardevano i bracieri e alla legna o al carbone si aggiungevano le bucce delle mandorle. Nell’aria della sera insieme alle voci delle donne che cantavano: “Ora veni lu picuraru che nun avi chi ci purtari”…. si diffondeva il profumo della legna resinosa e delle mandorle.
E l’ultima sera, la Vigilia di Natale, non vi era casa dove non si distribuissero con generosità i ceci “cicirie vinu” .
Ma già dal pomeriggio, i profumi del Natale raggiungevano la loro massima espressione. In molte case si facevano i buccellati, i vucciddrati, un dolce povero fatto con la pasta del pane, i fichi messi a seccare durante l’estate e le noci. Nessuno aveva il forno in casa e diversi carusi facevano il giro delle case, con una lunga asse sulla testa, su cui venivano poggiate le forme di pane ancora crudo, fatto in casa, e i buccellati da infornare. I fornai del quartiere avevano cura di cuocere a puntino nei forni a legna pane e dolci e restituire a ciascuna delle clienti proprio il suo pane e i suoi buccellati, senza fare confusione.
Non avevamo l’albero di Natale con le lucine a intermittenza, non avevamo i giochi elettronici, a volte non avevamo neanche i regali di Natale. Niente panettone, niente champagne, niente poker con gli amici, niente decorazioni scintillanti.
Ma che profumo aveva il Natale!….
Rosanna Zaffuto Rovello