Non ci sono grandi margini di interpretazione: il referendum del 4 dicembre ha reso clamorosamente evidente la bocciatura degli Italiani nei confronti del Governo Renzi ma soprattutto della sua impostazione politica e della sua ispirazione culturale.
Aveva cominciato con una parola violenta, Renzi: “rottamare!” Rottamare la classe dirigente e i gruppi di potere della politica trattati come macchine obsolete, che conviene di più distruggere e sostituire che mantenere in funzione.
Era la risposta “di governo” all’antipolitica che montava come uno tsunami, tre anni fa, senza appello dopo il crack di Berlusconi con lo spread e lo spettro del disastro della Grecia a impaurire gli Italiani. Un panico collettivo senza nessuna luce in fondo al tunnel che non aveva trovato più rappresentanza nelle forze politiche superstiti della seconda Repubblica. Elezioni 2013 e non-vittoria del PD di Bersani, i 5 Stelle primo partito e la destra ridimensionata e divisa, con Berlusconi fuori gioco (e fuori dal Senato) per le note condanne per frode fiscale.
Da allora governi “parlamentari” con maggioranze anomale, Letta e poi Renzi, sempre più impantanati dai pezzi di centro-destra che si staccavano come meteoriti dalla galassia berlusconiana esplosa e piovevano dentro il perimetro dell’area di governo con Alfano e Verdini a connotare il senso politico (sono tutti eufemismi) dell’operazione.
Renzi cavalca questa deriva, con buona pace dei propositi che aveva sbandierato quando aveva vinto le primarie nel PD: mai al governo senza elezioni! E invece al Governo ci va, con il programma di Bersani e i gruppi parlamentari scelti dal suo predecessore, che prontamente si riposizionano intorno al nuovo “capo” mentre la Sinistra interna del PD non riesce ad andare più in là di afasiche uscite dall’Aula per non votare i rospi troppo grossi (Job Act, Buonascuola, Italicum e persino la fiducia sulla riforma costituzionale, etc. etc): evanescente e ininfluente.
In una prima fase la “narrazione” del giovane sindaco di Firenze diventato primo ministro a meno di quarant’anni aveva fatto sperare tanti: sembrava l’ultima chance per dare una scossa alla palude di un’Italia bloccata in una crisi di sistema, con una politica balbettante rispetto alla prospettiva del Paese soffocato dalle dinamiche della globalizzazione, sempre più avvitata su se stessa e subalterna a codici mediatici che sembrano fatti apposta per banalizzare e non dire niente dando l’impressione di parlare chiaro e andare al cuore dei problemi.
Rottamare: sembrava la parola magica, il soffio d’aria nuova che avrebbe spazzato via un’intera generazione di politici invecchiati nelle istituzioni senza essere stati capaci di cambiarle, esperti nelle sconfitte e specializzati a distruggere le proprie vittorie, tanto da far sospettare che fossero avvenute per caso.
La prima contraddizione che strideva, (inizialmente piano, come un tarlo, poi sempre più forte) dietro l’allure smagliante del giovane premier, era il patronage di chi lo aveva portato a Palazzo Chigi scalzando Letta con un tweet: re Giorgio, il Presidente, sempre più opaco e lontano dalla sua storia laburista di “destro” storico dentro il Partito Comunista Italiano, il primo a precipitarsi “sotto l’ombrello della NATO” (or sono gli anni ’70) e a boicottare ferocemente il movimento pacifista e Pio La Torre contro i missili nucleari a Comiso, stella polare decaduta del conservatorismo della Sinistra italiana nel secolo passato e sempre più identificato come presidio e garante dei poteri forti, economici e internazionali, palesi e non, nel presente.
La seconda contraddizione stava nelle scelte politiche imposte sin dai primi mesi di governo: due grandi questioni della democrazia nell’era della globalizzazione, il lavoro e la scuola, “sistemate” con piglio autoritario con una serie di sterzate liberiste e burocratiche, Job-Act e Buonascuola, coerenti ad una visione feudale, gerarchica, subordinata, che cancellava a colpi di fiducia diritti, libertà e spazi di democrazia, senza un progetto di innovazione autentica, di spessore culturale, con superficialità, improvvisazione, presentati come efficienza e capacità decisionale. Colpendo la vita di milioni di persone.
E poi il capolavoro: la legge Boschi, la riforma che modificava 47 articoli della Costituzione con un impianto che sbilanciava l’equilibrio tra i poteri tutto a favore del Governo, come se la politica, e la rappresentanza democratica che le dà anima e vita, fosse un inciampo fastidioso sulla via delle “magnifiche sorti e progressive” del nuovo che avanzava, e della “governabilità”(echi infausti del ‘900 in questa parola).
Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti e la Germania uscivano dalla crisi con politiche chiare di economia sociale di mercato e misure di sostegno al lavoro, in Italia la disoccupazione giovanile toccava percentuali disastrose, l’emigrazione si consolidava come l’unica via d’uscita dalla povertà, la condizione degli anziani, dei bambini e delle fasce deboli della società si immiseriva secondo quanto il rapporto del CENSIS ha documentato recentemente con dati drammatici. Per non parlare del rapporto con le banche e dell’anticipo, col trucco, delle pensioni.
Non è bastato saper comunicare, non è bastatodemolire il passato e dimostrare spregiudicatezza fuori dagli schemi (la defenestrazione di Letta ha avuto uno stile da vendetta mafiosa), non è bastata la “narrazione” di un’Italia che non c’era, che era soltanto quella che si voleva immaginare, ma che la gente non riconosceva più, confrontandola con la durezza della propria esistenza quotidiana, resa ancora più difficile dall’affievolirsi di tutte le speranze. Guai a una politica che distrugge le speranze.
Per governare un Paese c’è bisogno della Politica, quella vera, fatta di progetti fondati sulle idee, capace di organizzare le persone, di costruire legami sociali, di conquistare un consenso che non è di acclamazione, ma di condivisione quotidiana di pratiche di trasformazione della società, una politica che sappia dialogare, arricchirsi del contributo di tutti, e poi indicare una propria visione, e farla vivere, tutti igiorni, non dagli schermi televisivi, come una pubblicità. Senza l’arroganza di chi crede di avere sempre ragione, a prescindere; arroganza che si è dimostrata inefficace e quindi fastidiosa e inquietante.
Questo vale a tutti i livelli: nazionale, regionale, cittadino. Tanti piccoli rottamatori si sono collocati ai vertici delle istituzioni del Paese sull’onda del cambiamento “epocale” in questi anni. E avevano tanto più successo quanto più manifestavano supponenza, fastidio, disprezzo nei confronti della politica, velleità di superare destra e sinistra, tradizione e progresso, codici istituzionali e linguaggi sociali, partiti, sindacati, tutto. Tranne l’occupazione del potere. Sempre più autoreferenziali quanto tenaci e coriacei nel tutelare la propria conservazione, che appare sempre più fine a se stessa, sganciata da qualsiasi contenuto. Contrapponendo alla politica un presunto “spirito civico”, cercando una comoda neutralità rispetto alle contraddizioni e ai conflitti che nella società esistono, e che invece è proprio compito della Politica affrontare e risolvere, costruendo equilibri nuovi, scegliendo le proprie strade con nettezza, coerenza, onestà intellettuale.
La politica è una cosa seria, è fatta di pazienza, di pensiero critico, di studio, di mediazione intelligente. La politica è una cosa sacra, rispetto alle speranze e alle sofferenze delle persone che essa sola può trasformare nella storia, in una dimensione comunitaria, sociale, autenticamente democratica. Si possono cavalcare le ondate qualunquiste, le spinte populiste, in determinati momenti, anche con successo. Ma non dura.
La suggestione del comunicatore può suscitare speranze e richiamare consenso, ma se poi non ci sono le risposte giuste, la delusione travolge gli imbonitori, senza freni. Ed è quello che sta succedendo, a tutti i livelli.
Non ci sono alternative alla politica, almeno nei sistemi democratici. Come possa nascere e svilupparsi nella società, al di là delle funzioni di governo, che non la possono esaurire, ma sono casomai funzionali ai progetti, è compito di tutti. Compito più difficile in quanto non si vedono in campo soggetti collettivi capaci di sostenerlo adeguatamente.
Nell’epoca della comunicazione mediatica e della socializzazione telematica elaborare progetti e costruirne la realizzazione in una dimensione sociale (e non solo “social”) può essere più facile se rispetto alle tecnologie (e alle tecnocrazie) sappiamo esprimere autonomia e non subalternità; a partire da noi stessi. Bisognerà cominciare, prima possibile. Nell’interesse di tutti. Non c’è tempo da perdere. L’alternativa è rassegnarsi alla desertificazione.