CALTANISSETTA – La prossima consultazione referendaria del 4 dicembre 2016, rappresenta uno degli appuntamenti strutturalmente più rilevanti, tra quanti se ne sono avvicendati, dal dopoguerra, nella vita del nostro Paese. Giova ricordare che si tratta di un referendum per la modifica dell’architettura costituzionale di tipo confermativo, della legge approvata in quarta lettura il 12 aprile scorso alla Camera dei Deputati, con 361 voti a favore, 7 contrari e 2 astenuti. L’otto agosto scorso la Suprema Corte di Cassazione ha ammesso i quesiti sulla riforma della Carta Costituzionale, e nei sessanta giorni successivi il Governo ha provveduto a fissare la data del voto.
Non è necessario il raggiungimento del quorum del 50% dei votanti affinché il risultato sia valido. Se vincerà il Si, la legge diventerà definitivamente efficace, se vincerà il No rimarrà vigente la attuale normativa.
Il quesito riportato sulla scheda sarà: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n° 88 del 15 aprile 2016”.
I sostenitori del Si, considerano la riforma battezzata “Boschi Renzi”, un notevole passo avanti nel miglioramento qualitativo del sistema politico italiano, ad avviso degli stessi, paralizzato da un processo per la formazione dei provvedimenti legislativi insidioso e farraginoso, che andrebbe a discapito della durata dei governi, conseguendone instabilità politico amministrativa L’Italia ha visto susseguirsi 63 governi in 70 anni.
I punti salienti del Si sono l’addio al bicameralismo, ed al conseguente processo di rinvio delle leggi tra una Camera e l’altra, la possibilità di votare la fiducia al Governo dalla sola Camera dei Deputati, la diminuzione del numero complessivo dei Parlamentari e l’abolizione del Consiglio Nazionale Economia e Lavoro con conseguente diminuzione dei costi della politica. Il Senato, composto da amministratori locali e consiglieri regionali, fungerà da organo di conciliazione tra i poteri del governo centrale e le esigenze delle comunità locali, con l’auspicio di contrarre i casi di contenzioso tra Stato e Regioni dinnanzi la Corte Costituzionale. E’ altresì prevista la modifica del quorum referendario, con il raggiungimento del livello minimo di 150.000 firme, rispetto alle attuali 50.000 per proporre leggi di iniziativa costituzionale.
Le ragioni del No si fondano nella paventata diminuzione delle garanzie costituzionali, ad opera di un Parlamento non adeguatamente legittimato, in quanto eletto con la legge del Porcellum, dichiarata incostituzionale. Il bicameralismo paritario, attualmente vigente, diverrebbe confusionario e fonte di possibili conflitti di competenza tra Stato e Regioni e tra Camera e nuovo Senato, complicando così il processo di formazione delle leggi. Agli amministratori locali e regionali eletti alla carica di Senatori, verrebbe estesa l’immunità parlamentare, e tutto ciò con una solo modesta diminuzione dei costi della politica di solo il 20% anziché del dimezzamento promesso. L’aumento del numero di firme da 50.000 a 150.000 per proporre una legge di iniziativa popolare, non viene percepita come un’operazione di selezione atta a filtrare le proposte più significanti, ma come una limitazione della partecipazione diretta dei cittadini. Si percepisce, inoltre, come una mortificazione delle libertà politiche, la contestuale entrata in vigore del sistema elettorale dell’Italicum, con conseguente interdizione dell’accesso in Parlamento delle piccole formazioni, che avrebbe l’effetto di accentrare i poteri in grandi partiti e leader.
Le relative campagne si sono avviate, ed ormai si è dato fuoco alle polveri, con il risultato che il fumo della battaglia rischia di offuscare la chiarezza della visione che è dovuta ai cittadini elettori.
In un primo momento, in cui il Presidente del Consiglio traguardava il futuro dall’alto della sua posizione politica, ha commesso l’evidente errore di correlare il destino del proprio governo (e forse anche il proprio avvenire politico) all’esito del Referendum, con il risultato di consentire agli avversari (esterni ed interni), di spostare la questione facendo percepire il Si alla consultazione come il Si al Governo ed il No come sfiducia all’attuale compagine. Da opportunità di cambiamento a teatro per il regolamento dei conti, quindi, secondo una storia italiana già raccontata del paradosso dei paradossi; il referendum verrebbe ucciso utilizzando la stessa arma che esso stesso ambisce a combattere.
Il desiderio di sopravvivenza della coalizione ha, per fortuna, aggiustato il tiro, separando le questioni. Si o No al Referendum il governo arriverà a fine legislatura, e il premier apre anche a modifiche alla legge elettorale. Vincere, tuttavia, piace a tutti e la tentazione di personalizzare è sempre, dietro l’angolo. E’, pertanto, ritornata in auge la vecchia “storia” del ponte sullo Stretto di Messina, la quattordicesima per le pensioni e la possibilità di andarci prima, i finanziamenti del Patto per il Sud e per le periferie a pioggia. Che importa se non vi sono progetti e forse neanche i soldi. Anche il terremoto di Amatrice sembra ormai un problema risolto. Fiore all’occhiello l’esperienza alla Casa Bianca, dove persino il Presidente degli Stati Uniti offre sostegno al Si.
Detti fatti ed argomenti, di indubbia importanza, nell’elegia del contraddittorio politico, allontanano l’attenzione sul vero tema che interessa ai cittadini: comprendere se avvertono o meno l’esigenza di cambiare il nostro Paese, e soprattutto se possono, o meno contare su una prospettiva di farlo con forme di democrazia diretta.
L’architettura costituzionale elaborata dai fondatori della nostra Repubblica è uno strumento perfetto nelle mani di una classe dirigente perfetta. Riteniamo che la odierna qualità della classe politica sia la medesima alla quale hanno pensato i Costituzionalisti nel dopoguerra?