(Fonte repubblica.it, di DANIELE CASTELLANI PERELLI)
I numeri di un disastro. Se guardiamo alle principali classifiche internazionali non ci sono dubbi: l’Afghanistan è oggi un vero disastro. Anzitutto proprio sul piano della sicurezza. Le tre principali missioni che si sono finora succedute –Enduring Freedom, Isaf e Resolute Support – non hanno reso l’Afghanistan più sicuro, tanto che secondo il Global Peace Index del 2016 è il quarto paese meno pacifico del mondo. Secondo l’americano John Sopko, l’Ispettore generale speciale per la ricostruzione, tra gennaio e maggio il governo di Kabul ha perso un altro 5 per cento di territorio, e ora ne controlla solo il 65,6, la percentuale più bassa dal 2001 ad oggi. Ci sono aree dove la guerra non è mai finita, gli attentati continuano a insanguinare il Paese, e ora anche l’Isis sta facendo concorrenza ad Al Qaeda e ai talebani, al punto che secondo l’Onu il 2015 è stato l’anno con il maggior numero di vittime civili dal 2009: 3.545 morti e 7.457 feriti, colpiti nel 62 per cento dei casi da “elementi anti-governativi” e nel 17 per cento da forze legate all’esecutivo.
Per quanto riguardo lo sviluppo, l’ultimo rapporto dello United Nations Development Programme colloca l’Afghanistan al 171esimo posto su 188. Più o meno intorno a quella posizione, tra la 170 e la 175, lo danno le classifiche della Banca Mondiale, dell’Fmi e dell’Onu per il Pil pro capite, mentre è terzultimo, 166esimo su 168, nell’indice di Transparency International, e 120esimo nel World Press Freedom Index. Il 39,1 per cento dei suoi 32 milioni di abitanti è povero, e l’ultima sintesi della Banca Mondiale, aggiornata ad aprile, non è incoraggiante. Sì, il Pil cresce intorno all’1,5-2 per cento, ma nel 2012 aumentava del 14,4 per cento. Migliorano le entrate fiscali, ma la disoccupazione è salita addirittura al 40 per cento e l’accesso all’elettricità rimane uno dei peggiori al mondo (38 per cento). Quanto alle donne, secondo l’Unione Interparlamentare, rappresentano il 27,7 per cento dei deputati, più che in Francia o in Canada, ma la vita del “secondo sesso” rimane difficile, come raccontano il 152esimo posto nel Gender Inequality Index: solo il 19 per cento lavora, solo il 17 per cento è istruita.
E poi: c’è un avvocato ogni 11 mila cittadini, la malnutrizione dei bambini sotto i 5 anni è ancora al 40,9 per cento, le foreste sono state decimate, il terreno coltivabile è scarso. Così non c’è da stupirsi se per tanti giovani afghani l’unica speranza si chiama emigrazione. Nel 2015 si è più che quadruplicato il numero di richiedenti asilo nell’Ue. Sono stati 178 mila, contro i quasi 38 mila del 2014. Ormai sono il secondo gruppo nazionale dopo i siriani, anche se ancora di più sono quanti cercano asilo in Pakistan e Iran (2,5 milioni di afghani in entrambi i paesi).
Di quanto è stato fatto dopo la caduta dei talebani non tutto è da buttare, ovviamente. E non è solo questione di barbe e burka, di dress code insomma. Dal 2004 si tengono libere elezioni, e l’istruzione e il sistema sanitario sono migliorati. Dal 2002 ad oggi il numero di iscritti nelle scuole è balzato da uno a 8,7 milioni (il 36 per cento sono ragazze), quello degli insegnanti da 21 mila a 185 mila. Tra il 2003 e il 2011 la mortalità infantile è passata dal 16,5 al 7,7 per cento. Tuttavia, come ha sintetizzato a marzo Nicholas Haysom, allora rappresentante speciale a Kabul del Segretario Generale dell’Onu, “nel 2016, per il governo, sopravvivere equivarrà a un successo”.
Il rapporto costi/benefici. E quanto ha speso l’Occidente, dal 2001 ad oggi, perché l’Afghanistan ottenesse questi magrissimi risultati? Solo per quanto riguarda gli Stati Uniti, di gran lunga i protagonisti dell’intervento occidentale, fino alla fine del 2014 la guerra era costata 765 miliardi di dollari, secondo i calcoli del Financial Times. Vale a dire 33 mila dollari – 2.300 l’anno – per ogni cittadino afghano, il cui reddito è peraltro di soli 670 dollari. Da allora si è arrivati a 783 miliardi, come ha scritto in un dossier pubblicato a fine luglio Neta C. Crawford, professoressa di scienze politiche alla Boston University e condirettrice di Costs of War, un progetto della Brown University.
La stima è però ampiamente al ribasso, come ci spiega una delle autorità sul tema, ovvero Linda J. Bilmes, esperta di finanza pubblica di Harvard. “I conflitti in Afghanistan e in Iraq sono costati insieme tra i 4 e i 6 bilioni, includendo anche le cure per i veterani. Non è possibile separarli, perché molte delle truppe e degli equipaggiamenti sono stati impiegati in entrambi gli scenari. Tuttavia, molto approssimativamente, possiamo dire che il 60 per cento sia stato impiegato per l’Iraq, il 35 in Afghanistan, e il 5 in altre regioni”. Tradotto: secondo Bilmes, la guerra a Kabul è costata tra gli 1,4 e i 2,1 bilioni.
Ma a cosa sono serviti quei soldi? In gran parte a fare la guerra, a mantenere un contingente militare che ha visto tornare in patria dentro tetri body bag2.384 soldati statunitensi, secondo il sito icasualties.org. Complessivamente le vittime militari occidentali sono state 3.520 in tutto, tra cui 455 britannici e 681 di altre nazionalità, compresi 53 italiani (a cui vanno aggiunti 3 civili) tra caduti in battaglia o in incidenti durante la missione. La cifra è comunque solo una piccola parte delle 111 mila vittime – delle quali 31 mila civili, 30 mila tra poliziotti e forze di sicurezza, 42 mila tra talebani e altri militanti – che secondo Neta C. Crawford la guerra in Afghanistan avrebbe fatto in totale. A metà settembre John Sopko ha dichiarato che, di tutti quei soldi americani, alla ricostruzione sono andati solo 113,2 miliardi, 63,9 dei quali peraltro usati per addestrare le forze afghane: una somma che per Sopko supera già comunque quella del Piano Marshall.
Quanto ha speso l’Italia. E l’Italia? Sommando gli stanziamenti dei nostri governi dal 2001 ad oggi, destinati sia alle varie missioni sia alla cooperazione, il risultato è di almeno 6,6 miliardi di euro. Nel 2001 l’Italia stanziò 71 milioni di euro, ma già l’anno successivo la cifra si era più che triplicata, fino ad arrivare a un record di 833 milioni nel 2011. Fino al 2013, secondo un rapporto della Camera, erano stati spesi 5.554.103.782 euro. Nel 2014 se ne sono aggiunti 420.239.136, poi con la fine della missione Isaf il contributo è andato calando sensibilmente: nel 2015 185.024.243, e nel 2016, fino al 31 dicembre, 179.030.323, mentre altri 120 milioni sono stati destinati, sia l’anno scorso sia quest’anno, alle forze di sicurezza locali. Da sommare sono infine i soldi per la cooperazione dal 2014 ad oggi, che, come ci spiega la Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina, sono stati rispettivamente di 16.690.000, 20.250.000 e 19.950.000.
Anche qui la stima è comunque al ribasso. Non si contano infatti le indennità di missione di tutti questi anni, le decine di milioni stanziati per l’impiego di personale militare in Medio Oriente e a Tampa (in Florida) “per esigenze connesse con le missioni in Afghanistan”, oppure quelli per le volontarie della Croce Rossa. Più altre voci singole, come ad esempio i 127.800 euro per l’organizzazione di una Conferenza di Roma sulla giustizia nel 2007, o quei 1.613.595 euro stanziati a luglio per “la cessione a titolo gratuito di mezzi e attrezzature per la gestione dell’aeroporto di Herat”. Un prezzo comunque considerevole, uno dei più alti nell’alleanza, a cui si deve aggiungere quello umano: l’Italia, come già ricordato, ha infatti registrato in questi anni 53 vittime, oltre alle tre non militari.
Le spese degli alleati e gli altri costi. Quanto ai nostri principali alleati, per i due paesi che dividono il podio con gli Stati Uniti per numero di truppe inviate in questi anni, ovvero il Regno Unito e la Germania, sono state rese note le spese fino alla fine del 2014, quando si è conclusa la missione Isaf: hanno sborsato rispettivamente 37 miliardi di sterline (circa 43 miliardi di euro) e 9,8 miliardi di euro. Oltre agli stanziamenti nazionali, ci sono stati anche quelli di due budget comuni della Nato, Nisp e Military Budget, che finora hanno sborsato – ci spiegano da Bruxelles dall’Alleanza atlantica – 5,34 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti gli 1,5 miliardi di dollari dell’Ana Trust Fund. Dal gennaio 2015, poi, è attiva la Resolute Support Mission, che è decisamente meno impegnativa, per compiti e costi, delle precedenti, ma vede comunque in prima linea 39 Paesi con 13.079 soldati, in testa Stati Uniti (6.800), Germania (980) e Italia (945). All’ultimo vertice di Varsavia, a luglio, i leader della Nato hanno infine annunciato che continueranno a finanziare la presenza dell’Alleanza con 5 miliardi di dollari l’anno fino al 2020, circa 3,5 dei quali saranno assicurati dagli Stati Uniti.
Un’ultima voce è rappresentata dai soldi destinati allo sviluppo dalla comunità internazionale. È una giungla di dati in cui è facile perdersi, tra Banca Mondiale, accordi bilaterali, Ue e Onu. Un calcolo totale più preciso ci ha aiutato a farlo la Development Initiatives, un’organizzazione britannica i cui studi sull’assistenza umanitaria globale sono finanziati dai governi di Canada, Olanda, Svezia e Regno Unito. “Tra il 2002 e il 2014 l’Afghanistan ha ricevuto 61,1 miliardi di Aiuti pubblici allo sviluppo (Oda), incluse cioè le spese umanitarie bilaterali e multilaterali dei paesi Ocse ed esclusi i fondi per la sicurezza locale”, ci spiegano. La discrepanza con i 113,2 miliardi investiti dagli americani per la ricostruzione dipende perlopiù, oltre che in parte dall’uso di una diversa metodologia, proprio dal fatto che in quest’ultima cifra – riferita peraltro anche al 2015 e al 2016 – gli aiuti alle forze di sicurezza afghane, dunque non di assistenza umanitaria, la fanno da padrona. Tabelle Oda alla mano, i tre paesi più generosi risultano essere stati finora di gran lunga Stati Uniti, Giappone e Germania.
Cos’è andato storto…e l’Afghanistan tra 15 anni. Dunque: quindici anni di guerra, mille miliardi di dollari a tenersi bassi, 111 mila morti, tutto per i risultati citati all’inizio. Cos’è andato storto? Lo abbiamo chiesto a due dei più importanti esperti internazionali di Afghanistan. “L’Iraq, ecco cosa è andato storto”, ci risponde da Londra Ahmed Rashid, anglopachistano, autore del bestseller ‘Talebani’: “Quell’invasione ha distolto truppe e energie dallo scenario afghano quando i talebani erano quasi sconfitti. Se sono stati spesi troppi pochi soldi per la ricostruzione? Forse sì, ma era difficile fare altrimenti in un paese ancora in guerra”. Invece secondo Carlotta Gall, corrispondente del New York Times da Kabul dal 2001 al 2013, oggi in Nord Africa, autrice nel 2014 di ‘The Wrong Enemy: America in Afghanistan‘, “la stabilizzazione del Paese è stata resa estremamente difficile dal Pakistan, che in questi anni ha sostenuto e protetto i talebani e ha protetto Al Qaeda. Questa è la mia tesi, e penso che anche Washington sia arrivata alle stesse conclusioni. Come nel caso dei vietcong, è difficile combattere un’insurgency se un paese vicino le assicura un porto sicuro e una via di rifornimento”. Tuttavia, per Carlotta Gall, si è assistito a “un progresso reale in ogni settore, l’intera economia si è risollevata, la sanità e l’istruzione sono migliorati immensamente, e anche le forze di sicurezza si sono professionalizzate, mentre strade e infrastrutture erano totalmente distrutte nel 2001. Ferrovie, aeroporti, dogane, dipartimenti delle tasse, tutto è nuovo”.
E dove sarà l’Afghanistan tra altri 15 anni? “Non vedo speranze, a meno che non si riesca a raggiungere un accordo con la lobby moderata che eppure esiste tra i talebani. L’anno scorso l’opportunità si è presentata, ma poi è stata persa – risponde Rashid – L’Occidente deve continuare a fare pressioni in tal senso, anche se comprensibilmente oggi è distratto dalla Siria e dall’Iraq, mentre i vicini, da una parte il Pakistan e dall’altra India e Iran, continuano a interferire negativamente negli affari di Kabul, per non parlare della nuova presenza dell’Isis. Come sempre è accaduto nella sua storia, l’Afghanistan è ancora in balia delle potenze straniere”. “Tra 15 anni? Ho letto da qualche parte – conclude Gall – che ne servono 25 perché un paese si riprenda dalla guerra, e lì la guerra non è ancora finita. C’è bisogno che in 5-10 anni si arrivi a un accordo di pace. Solo a quel punto l’Afghanistan avrà veramente la possibilità di crescere”.
ROMA – Può uno Stato vincere una guerra senza la fiducia del proprio popolo? Difficilmente potrà l’Afghanistan, se non riuscirà prima a sconfiggere un nemico forse ancora più inestirpabile dei talebani: la corruzione. Uno dei testimoni più informati di quanto la mazzetta e il favoritismo scandiscano la vita quotidiana di ogni afghano è l’eurodeputata verde Eva Joly, magistrata franco-norvegese che prima si è occupata di grandi scandali politico-finanziari francesi e poi ha presieduto il Mec, organismo anti-corruzione afghano, di cui ha fatto parte dal 2012 al 2015.
“Scoprimmo che più della metà dei soldi pubblici finiva in corruzione”, ci spiega Joly da Strasburgo: “I cittadini sono abituati a pagare mazzette per qualsiasi cosa. Ma l’aspetto più spaventoso è che la catena è ininterrotta, fino al livello più alto possibile. I ministeri sono protagonisti della corruzione, sanno benissimo come funziona, e chi ci lavora ne trae vantaggio. Ad esempio il ministero della Salute, che ha il compito di dare il via libera all’importazione dei farmaci, che perlopiù vengono dal Pakistan. Ebbene, venivano approvati medicinali che non lo erano, aspirine che non erano aspirine. I soldi con cui si dovrebbero costruire gli ospedali sono impiegati per tutt’altro, oppure spariscono. Nell’edilizia si usano materiali molto più poveri di quelli che si sostiene di aver comprato, e lo stesso succede quando si fa una strada. Per non parlare di quello che scoprimmo analizzando la dieta delle forze di sicurezza, cui in teoria si era pensato di destinare 6 mila calorie al giorno, e invece quei ragazzi rischiavano ogni giorno la loro vita nutrendosi di riso scadente e appena 1.200 calorie”.
A combattere questo mondo criminale, poi, non ci sono quasi mai giudici indipendenti, che, “quando invece trovano il coraggio, vengono facilmente terrorizzati dai potenti e dalle bande”. “L’Afghanistan ha un organismo per reclutare i funzionari pubblici, e quando l’abbiamo analizzato abbiamo visto che nei curricula aveva difficoltà a distinguere tra diplomi veri e fasulli”, spiega Joly, che a un certo punto preferì lasciare Kabul a causa del senso di impotenza e della paura (“C’era un attentato a settimana, ed io, donna con i capelli biondi, davo troppo nell’occhio, avevo paura anche ad uscire di casa”), ma ha continuato comunque a seguire, anche attraverso il Mec, i pochi progressi del Paese.
Ricorda con amarezza il caso della Kabul Bank, “forse il più grande scandalo bancario del mondo”, che nel 2010 ha coinvolto in prima persona il fratello di Hamid Karzai – presidente dal 2001 al 2014 – e ha visto svanire nel nulla quasi un miliardo di dollari. Le cronache di questi mesi non sono però da meno. Raccontano dei soldati “fantasma” che non esistono o sono morti, ma di cui qualcuno riceve comunque gli stipendi; della centrale energetica da 355 milioni che nessuno usa; della produzione dell’oppio che rimane ai livelli del 2000, nonostante i 7 miliardi di dollari spesi per combatterla; e del commercio dei lapislazzuli che è diventata la seconda fonte di guadagno per i talebani.
L’Occidente ha le sue responsabilità. Non solo perché non ha verificato che fine facessero gli aiuti internazionali, come ha rimarcato di recente John Sopko, l’Ispettore generale speciale per la ricostruzione, ma anche perché, segnala Joly, alcune iniziative, come quella di consegnare i soldi in contanti nei villaggi, non si sono rivelate proprio delle buone idee: “Ma soprattutto si sono chiusi gli occhi quando emergeva che qualche ministro afghano si era comprato un’auto di lusso oppure una villa in Germania o negli Stati Uniti. Con quali soldi lo faceva?”.
“La corruzione è un enorme ostacolo alla pace”, dice Joly. Il problema è che, se da un lato alimenta a suo modo la guerra, dall’altro ne è alimentata, in un infinito circolo vizioso: “Cerco di prendere e godere tutto il possibile oggi, perché domani potrei venire ammazzato, questa è la mentalità che porta la guerra”. Per il futuro è difficile essere ottimisti, ma almeno ora c’è il presidente Ashraf Ghani, “un uomo che a differenza del suo predecessore non è mosso dall’avidità”. “Per il resto – conclude Joly – dobbiamo riporre la nostra fiducia nei tantissimi giovani di buona volontà che vivono in quel paese, sperare che sappiano costruire delle isole di integrità da cui la società possa ripartire”.