Il mio solito lunghissimo viaggio verso Roma, tutto un pomeriggio di una domenica Ottobrina e tutta una notte, more solito, senza potere chiudere occhio, guardando il mondo variegato che c’è attorno a me su questo bus che oramai mi accompagna da mesi in questa mia avventura universitaria da giovanissimo studente universitario 60enne, giovani, vecchi, tantissimi extracomunitari, che dove vanno non so, ma tutti alla ricerca di un qualcosa. Ed io volo con la mia mente a questa avventura universitaria con i sogni ad occhi aperti che mi fanno sentire meno pesante questo viaggio.
Ci sarà la lezione del prof Piccioni, giornalista della Gazzetta dello Sport, che mi sta trasmettendo tante emozioni, facendomi andare con la mente ai miei 14/15 anni , quando uscendo dall’ Oratorio con i miei amici, andavo a comprare il quotidiano sportivo per poi tenerlo nella tasca dietro i jeans come un trofeo, un riconoscimento, una identificazione, tanto diverso dai tanti miei amici, compagni di scuola ma forse compagni per niente, che ostentavano giornali politici, barbetta trasandata da quindicenne intellettualoide indossando l’eskimo o quelli vestiti tutto punto con i capelli ben tagliati cortissimi che ti guardavano con atteggiamento altezzoso.
La volta scorsa il Prof chiuse la lezione dicendo che nella prossima avrebbe parlato delle Olimpiadi di Atlanta del 1996 e del pentathlon moderno.
1996, data troppo importante per me, a maggio nacque mio figlio Raffaele, a giugno morì mio padre ma con la soddisfazione che potè tenere in braccio suo nipote che portava il suo stesso nome, e con Raffaele sempre in braccio a me, sprofondato nel divano, ad agosto guardai le Olimpiadi .
Ricordo che mentre stavo vedendo la gara di Pentatlon Moderno, sempre con Raffaele stretto a me, ricevetti la telefonata della zia Rosa che era andata ad Atlanta dai nipoti, e pensando, ora che non c’è più, alla sua frittata, “la froscia”, che mi preparava sempre e di cui andavo pazzo. Intanto sempre immerso nei miei sogni arrivo a Tiburtina che sono le 6, prendo il bus ed alle 6:45 sono davanti l’università, cappuccino, crostata di mele , mi vado a sciacquare, dentifricio, profumo, mi cambio camicia e maglione e sono … si fa, per dire pronto per le lezioni . Alle 8.30 cominciano ad arrivare tutti, saluti, baci, “ come stai?”, “ come ti va?” ” sempre con questo viaggio massacrante, ma perché non prendi l’aereo?” arrivano un po’ dopo Ale e il maestro Fragale e mi si riempie il cuore.
Entriamo nell’aula Celba, la mia voglia di dormire è tantissima, sono veramente stanco ma ecco entra il prof. con il suo spezzato senza cravatta, sempre garbato, compito, educato , gradevole ed inizia il suo racconto con quella tonalità di voce che ti fa andare indietro nei sogni, che ti accompagna. Comincia a raccontare di un episodio che fa sicuramente parte della sua vita professionale tanto da fare sembrare questo episodio come se non fosse mai esistito, perché era un qualcosa che faceva parte di lui, forse oltre la nuda cronaca, ma è sicuramente un episodio che gli sarà rimasto talmente nel cuore e riguarda una gara delle Olimpiadi di Atlanta del 1996.
Ad un certo punto nella gara di Pentathlon moderno, dopo 4 prove, diciamo che, brevissima parentesi, per qualcuno sarà inutile, è ininfluente perché conoscitori della materia, il pentatlon moderno è cambiato rispetto al pentatlon dell’antica Grecia. Allora le gare dovevano ricordare le abilità che avevano gli antichi guerrieri e quindi: il Pancrazio, il salto il lungo, il giavellotto, il disco e la corsa finale, e spero la prossima volta di parlarvi delle Olimpiadi della antica Grecia e del atleta di Taranto. Con de Coubertain l’atleta che doveva essere ricordato doveva essere un atleta moderno e questo sport metaforicamente viene raccontato con una storiella: un messaggero che dal campo di battaglia doveva portare un messaggio al re, al galoppo su un cavallo, durante il percorso dovette difendersi con la spada e la pistola, poi dovette attraversare un fiume nuotando e indi continuare il percorso correndo.
Allora le gare non si svolgevano in una sola giornata e parliamo di una altra epoca, ma erano fatte da 5 prove. Allora non c’era il famoso combined, che è corsa e tiro fatte insieme e quindi le gare, sostanzialmente, si risolvevano dopo 4 prove, che erano il tiro, la scherma, il nuoto e l’ equitazione, arrivando alla prova finale, con un italiano in testa che si chiamava Cesare Toraldo. Il campo di gara era molto lontano da Atlanta almeno 50-60 km e quindi alle 14:00 nel centro olimpico di Atlanta si diffuse il virus del Pentathlon Moderno .
In Italia ci inventammo tutti esperti di Pentatlon Moderno e cominciammo a disquisire su questo sport e non solo di tiro, di atletica, di nuoto, volley, pallanuoto, basket etc e naturalmente qualcuno era più avanti mentre ad Atlanta ci fu sicuramente la corsa alla macchina, alla navetta che avrebbe dovuto portare al campo di gara, tutti i giornalisti, funzionari CONI dove si sarebbe svolta la prova finale di corsa campestre, tutti presi dalla frenesia di questa medaglia d’oro, che sicuramente avremmo vinto, tutti a parlare di questo futuro ingegnere e di cosa scrivere nei giornali,” titolo, sottotitolo, occhiello” e di che premio consegnargli una volta in Italia.
Io che non essendo un grandissimo esperto di Pentathlon moderno maavevo gli strumenti e le conoscenze per capire che quel 1° posto non sarebbe rimasto tale ma vallo a spiegare ai miei amici, né tantomento a Raffaele che aveva tre mesi, per loro, oramai novelli tecnici di pentatlon moderno, la medaglia d’oro era sicura. Io volli assaporare quella finale in tv, pensando che sarei potuto andare con la zia Rosa ed essere lì, in quel campo dove Cesare Toraldo sarebbe partito in testa nella gara di corsa campestre.
Naturalmente accadde quello che il pronostico equilibrato aveva già illustrato e cioè che Toraldo arrivò 8°. Naturalmente fu come se tutta quest’adrenalina in qualche modo si ammosciò, sia in me, che nei miei amici che in tv e nelle pagine dei giornali, i cui titoli, che erano stati prenotati, furono dirottati su altri argomenti, i più disparati.
Comincio a tornare dal sogno e la voce del prof che mi aveva accompagnato, ora viene materializzata dalla sua figura, seduto davanti alla cattedra, sempre composto, con gli occhi azzurri incastonati nel volto pacioso e i capelli brizzolati e spettinati che gli danno un aria da ragazzino che racconta che resistette a non andare via subito dopo la gara, riuscendo a scrivere qualcosa.
Quindi si attardò in questo campo che si era svuotato. Questo stadio era molto fuori Atlanta, che era una città, una non città, dove non capì mai quale fosse il centro e quale fosse la periferia, se esistesse un Centro o una periferia, diciamo quello per lui fu un piccolo trauma, perché un Europeo abituato al massimo a New York, dove c’è comunque una City, trovarsi in una città senza un Down Town sarà stato terribile. Ad un certo punto mentre sta per andare via, salendo le scale , volgendosi indietro, per guardare per l’ultima volta questo stadio che non era proprio uno stadio, ma era comunque un impianto da 10.000 spettatori e quindi in quel momento tutto naturalmente vuoto, notò in lontananza, un solo punto, un puntino che sembrava muoversi e incuriosito si avvicinò e a poco a poco quel puntino cominciò a materializzarsi in una persona.
Intanto il suo discorso professionale era risolto, perché erano le 2 di notte in Italia, in un’epoca dove ancora non c’era Internet. Basta era finita la giornata per lui come giornalista, ma era incuriosito da quel puntino nel vuoto dello stadio , si avvicinò e vide che c’era un uomo appoggiato alla ringhiera, che stava rannicchiato e naturalmente in quel momento gli venne il pensiero che si stesse sentendo male, non lo aveva riconosciuto e gli venne spontaneo toccarlo, per vedere che cosa stesse succedendo? lui si voltò, era Cesare Toraldo e stava piangendo…….era solo, senza compagni, coach, giornalisti, manager che fino a poche ore prima facevano la calca attorno a lui…….. ecco quella è diventata per me una delle immagini più belle delle Olimpiadi.
Ora dei racconti che finora vi ho fatto, questa eredità mi è rimasta dentro e questo per dirvi che quella storia lì, purtroppo pochissimi giornali ne parlarono ed anche io che sono un divoratore di giornali sportivi e di storie di personaggi sportivi non ne sapevo nulla , penso che forse i giornali attraverso i giornalisti devono riuscire a mantenere un grado di livello di curiosità e non vincolarlo solo ai soliti noti. Questa è una delle sfide più grandi che il giornalismo ma in generale anche la comunicazione deve avere.
p.s.: Cesare Toraldo si è poi laureato in ingegneria ed ora è un affermato professionista.