“Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Lo diceva Don Milani nella sua “Lettera ad una professoressa” ed è diventato un principio fondamentale per la pedagogia degli ultimi cinquant’anni: alla base dell’insegnamento personalizzato, della valutazione non standardizzata ma coerente con i punti di partenza ed i progressi dello studente, del rapporto tra scuola e contesto del territorio, fino alla scuola dell’Autonomia che oggi è (ancora) l’ossatura dell’organizzazione del sistema formativo pubblico.
E invece, da qualche giorno, opinionisti e intellettuali (soprattutto padani), hanno lanciato l’allarme per la contraddizione tra le valutazioni, eccellenti, degli studenti meridionali agli esami di maturità, e i risultati delle prove INVALSI, il test che da alcuni anni si realizza in tutte le scuole italiane in seconda e quinta elementare, alla fine della terza media e alla fine del primo biennio superiore.
La gerarchia dei meriti sembrerebbe capovolta, visto che nelle prove INVALSI sono invece le regioni del Nord a dare i risultati migliori, e quindi si scatena la polemica nordista contro “le due Italie della maturità” (Corriere della Sera), “l’esame beffa i ragazzi del nord” (La Repubblica), con tutto l’armamentario retorico sulla dequalificazione della scuola meridionale contrapposta al rigore europeo e calvinista di quella del nord, spiegamento di grafici e insinuazione di brogli e di chissà quali altri loschi traffici.
La statistica è una scienza strumentale rispetto alla lettura dei processi sociali: va analizzata nei suoi presupposti, nei suoi elementi costitutivi, e interpretata rispetto ai risultati, contestualizzandone correttamente tutti gli elementi.
Il primo elemento di sfondo da considerare sta nel fatto che l’INVALSI è un istituto di ricerca esterno al Ministero della Pubblica Istruzione (ma è da esso controllato), e procede alla verifica delle competenze degli alunni delle scuole pubbliche esclusivamente per l’italiano e la matematica, con dei test standardizzati, asettici rispetto ai contesti in cui vengono somministrati, senza tenere conto dei programmi svolti, senza verificare il grado di apprendimento di quello che è stato realmente insegnato, senza che si siano definiti, a livello nazionale, i livelli minimi di apprendimento adeguati agli standard internazionali (come per es. il TOEFL per la lingua inglese).
Una verifica di stampo aziendalistico, quantitativo, che esprime bene la contraddizione tra un sistema scolastico che da un lato è fondato sull’autonomia, di gestione e di progettazione didattica, con la consegna di puntare al recupero dell’evasione e della dispersione scolastica e all’obiettivo finale del successo scolastico (anche per le scuole superiori), e dall’altro lato funziona ancora col centralismo burocratico-ministeriale, che ha sterilizzato, negli anni, il ruolo degli organi di gestione democratica, ha azzerato gli unici elementi innovativi delle sperimentazioni, si è rattrappito nello schema post-gentiliano della riforma Gelmini-Tremonti, che ha seguito la logica dei tagli a spese della qualità.
Le prove INVALSI sono state introdotte in quel contesto, come un tocco di modernità aziendalistica, contrabbandandole come strumenti capaci di misurare “oggettivamente” la qualità dell’insegnamento nei risultati dei ragazzi ai test.
Ma i test tendono a sopravvalutare la nozione rispetto al ragionamento, il dato più del processo. La formazione culturale di un soggetto prevede competenze e abilità che i test non possono misurare, proprio per la loro natura standardizzata, perché non misurano la capacità di riflessione critica, di esposizione del pensiero, il livello di partenza e quello di arrivo, la partecipazione. La frammentazione delle informazioni misurate banalizza la didattica, non la struttura.
La dubbia scientificità delle prove emerge anche quando i risultati sui livelli di preparazione non vengono incrociati con i dati di contesto interno al sistema (numero di alunni per classe, strutture scolastiche fatiscenti o adeguate, laboratori, docenti specializzati e sperimentazioni) ed esterno al sistema (quartieri più o meno degradati, servizi socio-culturali nel territorio, livelli di istruzione familiari, etc.).
Torna in campo l’ingiustizia di cui parlava Don Milani: far parti uguali tra i diversi. E il dato si aggrava se consideriamo che i risultati delle prove INVALSI servono al Ministero per premiare le scuole “migliori” con finanziamenti aggiuntivi, per i docenti e per le strutture, rendendo il divario tra scuole di serie A e scuole dei “figli di nessuno” drammaticamente irrecuperabile.
Invece di costruire equilibri, e rendere quindi reale la libertà di scelta delle famiglie rispetto alle scuole, si consolidano “scientificamente” gli squilibri, le fratture sociali, le disuguaglianze, le ingiustizie.
Una scuola pubblica che vuol garantire pari opportunità reali, deve indirizzare gli investimenti e le integrazioni non alle scuole “di successo”, perché non ne hanno bisogno ma proprio a quelle in difficoltà, che rimangono indietro, insieme ai loro ragazzi.
I dati che ci sono si potrebbero elaborare diversamente: incrociando la provenienza sociale degli studenti con i tassi di evasione e di abbandono, i voti di licenza media o di maturità e i luoghi di residenza, emergerebbe subito un quadro chiaro delle scuole da sostenere, ben diverso dalle “buone scuole” secondo l’INVALSI.
Ma orientare la verifica in questo senso significherebbe lavorare a rimuovere i fattori sociali che determinano l’insuccesso (c’è ancora l’art. 3 della Costituzione). Evidentemente non è questo l’obiettivo: si lavora invece per sclerotizzarli. E le scuole migliori diventano ospedali dove si curano i sani, dove, naturalmente, i medici sono tutti bravissimi.
Ma andiamo all’altro corno del problema, quello che ha scatenato la polemica: l’esame di Stato finale. Perché il bersaglio grosso è questo: introdurre una terza prova scritta standardizzata, curata dall’INVALSI, che sostituisca quella elaborata dai docenti delle diverse discipline (anche i docenti esterni) sulla base della programmazione realizzata da ogni scuola. Lo spazio dell’autonomia scolastica, e della libertà d’insegnamento dei docenti. Infatti, ormai da decenni non ci sono più nella scuola italiana i Programmi delle discipline, con contenuti obbligatori e uniformi, ci sono indicazioni-quadro, contenuti essenziali e opzionali, ma l’impianto di quello che si studia, autori, tematiche, impostazioni didattiche, per fortuna (e per Costituzione, art. 33) sono ancora affidati ai docenti, che non sono impiegati-dipendenti di un’azienda, ma sono dei professionisti a tempo pieno a servizio della Repubblica, con la responsabilità e la qualità professionale che sono ampiamente verificabili anche oggi.
Perché se un professore è bravo o no, non si verifica con la statistica dei promossi e la classifica dei voti, si verifica oggettivamente seguendo i risultati dei suoi alunni negli studi successivi e nella vita professionale, e soggettivamente nel segno che è stato capace di lasciare nella formazione delle generazioni di studenti che ha formato, nella mente e nel cuore dei ragazzi con cui ha lavorato, a cui, nel bene e nel male, ha dedicato la vita. E’ umanesimo, non robotizzazione.
E poi, la verifica della qualità reale della scuola del Sud, in Italia è certificata, purtroppo, dai risultati dell’emigrazione intellettuale. Come si spiegherebbe altrimenti che gli studenti meridionali vincono i concorsi al nord in ambito sanitario, bancario, aziendale, si affermano nelle libere professioni, là dove non valgono le raccomandazioni e i familismi, in misura sensibilmente maggiore rispetto ai giovani del Nord?
Se c’è del marcio nel sistema scolastico italiano non è nei dati sui voti alti alla maturità nel meridione. E’ in una deriva centralistica e burocratica che vuole cancellare nella scuola ogni funzione critica della società e del potere, che vuole una scuola buona per i sudditi, non per i cittadini consapevoli, con dei docenti perfetti esecutori degli indirizzi “aziendali” e che non siano “contrastivi” rispetto agli indirizzi di chi governa.
Forse persino Gentile, con i suoi Licei per la formazione della classe dirigente, almeno in questo era più avanti, quasi un secolo fa.
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