“Il noi è la democrazia” aveva detto il Presidente al Meeting di CL di Rimini, e ieri alle vittime del terremoto dell’Appennino “Noi non vi abbandoneremo”.
Non è un plurale majestatis quel “Noi” del Capo dello Stato, insistito nei suoi ultimi interventi pubblici come un filo conduttore, è il primo cromosoma della Politica, il gene fondativo dell’agire collettivo, la trama e l’ordito del legame sociale, quello che fa delle istituzioni rappresentative lo specchio fedele del Paese che devono servire.
Non è l’”Io” del leader carismatico che propone un’identificazione mediatica, spettacolarizzata, necessariamente distante, è quella condivisione profonda del sentimento di un popolo che si può riconoscere in questa accoglienza responsabile che parte da un dolore comune, da un impegno solidale credibile perché non esibito, non proclamato in favore di telecamera, ma quasi sussurrato guardando le persone negli occhi, a lungo, ascoltando, abbracciando, ad uno ad uno, inaspettatamente.
Non ha detto una sola parola ai microfoni il Presidente, nella sua visita nelle terre del disastro: prima tra le macerie, poi nelle tendopoli, al funerale delle vittime e poi nell’ospedale dei feriti. Ha lasciato parlare il silenzio, come è il suo stile, un silenzio fatto di attenzione consapevole, di rispetto per la dignità delle persone. Gesti essenziali, autentici: il ringraziamento a chi lavora tra le macerie, l’ascolto dei sindaci, il conforto e l’impegno a chi chiede allo Stato di non essere dimenticato quando si spegneranno i riflettori.
La gente percepisce questa autenticità, l’onestà intellettuale di chi fa della sua naturale riservatezza non un elemento di distanza ma di serietà di fronte ai drammi dei suoi concittadini, e da questo riserbo sa uscire con semplicità, con un abbraccio, con una carezza, anche con un sorriso, mentre ascolta tutti, uno ad uno.
L’applauso spontaneo che lo ha salutato, unico tra gli esponenti delle istituzioni, è stato il contrappunto di questo silenzio eloquente: un riconoscimento senza filtri, un investimento di fiducia, che smonta lo stereotipo mediatico del Presidente-ombra, silenzioso e ininfluente, per esprimere un’altra idea del rapporto tra cittadini e istituzioni, contrapposta alla disaffezione che trascina la gente nella deriva dei vecchi e nuovi populismi, lontana dal voto, disamorata della partecipazione.
Mattarella interpreta invece quella “Repubblica di tutti” di cui aveva parlato qualche giorno fa nella sua lectio su De Gasperi, quello Stato in cui il leader politico “sente il comando del popolo, di cui avverte più il peso morale che quello politico”, che è l’antitesi della “democrazia decidente”, a base populista nell’opinione quanto elitaria e burocratica nella selezione dei soggetti e dei poteri decisionali.
Per questo quando sono presenti insieme, Mattarella e Renzi, il loquace e pirotecnico Presidente del Consiglio scompare, non è più il centro dell’attenzione, è come avvolto dalla nebbia della sua comunicabilità fine a se stessa, dell’assenza di un orizzonte credibile che dia senso ad un’azione politica che ancora non è riuscita a interpretare autenticamente i problemi dell’esistenza quotidiana degli Italiani.
La comunicazione politica non si fa con la retorica da cabaret; può funzionare all’inizio, per attirare l’attenzione, ma non costruisce fiducia, stima, se alle parole non seguono i fatti, concreti, leggibili, nella vita di tutti i giorni.
La comunicazione di un progetto politico ha bisogno di contenuti, di tensione morale, di coerenza testimoniata con costanza e pazienza. Persino di un’idea di società, per non parlare di una cultura e di una tradizione. Requisiti tutti da conquistare per chi ancora non sa pensare e dire “noi” quando parla al Paese.
Il silenzio e la fiducia del “Noi”
Dom, 28/08/2016 - 14:51
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