CALTANISSETTA – Non è stata certo una commemorazione rituale quella del giudice Gaetano Costa, nisseno, Procuratore della Repubblica a Caltanissetta e poi Procuratore Capo a Palermo, dove è stato ucciso dalla mafia 36 anni fa, mentre passeggiava da solo, senza scorta, in pieno centro, in via Cavour, ricordato per iniziativa dell’ANM nell’Aula a lui intitolata a Palazzo di Giustizia di Caltanissetta.
Scintille a distanza nel ricordo del giudice, personalità scomoda e intransigente in una fase storica in cui il contrasto alla criminalità mafiosa non trovata nella magistratura siciliana univocità di giudizio e unanimità di impegno. La sua nomina a Palermo aveva suscitato malumori e sorde ostilità, in un mondo giudiziario ancora condizionato dai poteri forti e dalle connivenze.
I 55 mandati di cattura contro gli esponenti dei clan mafiosi palermitani Inzerillo, Spatola e Gambino, il giudice Costa aveva dovuto firmarli da solo, isolato dalla indisponibilità di tutti i suoi sostituti, già spiazzati dai suoi metodi investigativi, che già in quella fine degli anni ’70, indagavano sui patrimoni, sulle attività imprenditoriali di una mafia nuova, dei colletti bianchi e degli insospettabili, anni prima del “follow the money” dell’FBI americana.
Che la mafia in Sicilia non fosse più quella delle coppole storte e delle lupare il giudice Costa lo aveva capito da tempo: nel 1969 la sua deposizione alla prima Commissione Parlamentare Antimafia individuava con precisione nella pubblica amministrazione, nella gestione degli appalti, della spesa pubblica, delle assunzioni, la nuova struttura di potere della criminalità che si intrecciava profondamente con i poteri pubblici e le istituzioni.
E sulle istituzioni il suo sguardo era stato da tempo lucidamente vigile: sue le prime indagini in provincia di Caltanissetta sulle irregolarità in diverse banche locali, fino a indagare e procedere verso il Governatore della Banca d’Italia per omessa vigilanza.
Il tutto sempre senza clamori mediatici, senza rilasciare mai interviste, senza frequentare i palcoscenici della sociabilità mondana né coltivare amicizie o frequentazioni che andassero al di là della ristretta cerchia familiare.
Alla cerimonia nissena il figlio del giudice, Michele, avvocato che da anni si batte per fare piena luce sulle cause di quel delitto atroce, assente per motivi di salute, ha inviato un messaggio scritto al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il dott. Fernando Asaro, che ne ha dato lettura integrale in apertura.
In un passaggio cruciale l’avv. Costa afferma:
“La nostra tesi era quella che la causa del delitto non doveva essere ricercata solo nella firma dei mandati di cattura, sia pure particolarmente importanti in quanto colpivano la cosca mafiosa all’epoca egemone (oggi confermata dalle recente indagine dello F.B.I.), ma nell’autonomia del giudizio che veniva dimostrata da mio padre anche nei confronti della quasi totalità dei suoi sostituti, autonomia che poteva risultare assolutamente pericolosa nel campo del l’ipotesi che l’indagine riguardasse i cosiddetti colletti bianchi. Nella sentenza della Corte di Assise di Catania tale tesi fu confermata.
Con rammarico devo sottolineare che, a seguito delle propalazioni di Massimo Ciancimino, confortato da alcuni elementi probatori inconfutabili, tale ipotesi ha trovato ulteriore conferma. Mi feci carico di presentare un esposto dettagliato alla Procura della Repubblica di Catania. Solo a seguito di un intervento del presidente Napolitano mi fu comunicato che la competenza era stata trasferita alla Procura della Repubblica di Caltanissetta la quale non ha tenuto conto di quanto da me sottolineato. Quella stessa Procura che con lodevole costanza, di contro, continua a partorire processi al bracciantato criminale dei quali è realistico pensare che non arriveranno mai a conoscere gli interessi che tali omicidi hanno determinato. A questo punto mi pare ragionevole il sospetto che, per quanto riguarda l’omicidio di mio padre, non si voglia, sia pur inconsciamente, cercare la verità essendo realistico il timore che essa possa essere trovata.”
Altrettanto diretta la replica del Procuratore Capo di Caltanissetta, dott. Lari: “Questa Procura non ha mai smesso di cercare la verità, ma le verità si trovano nei processi e nel rispetto delle regole con cui vengono condotti”, motivando quindi la non affidabilità della testimonianza di Massimo Ciancimino e la correttezza dell’operato degli uffici giudiziari nisseni.
La verità sul delitto Costa ancora oggi è sconosciuta. Dopo lunghi processi è stato condannato solo il “palo” che affiancava gli assassini che hanno sparato da una moto di grossa cilindrata. Niente sui killer, ma niente soprattutto sui mandanti, sulle motivazioni forti che hanno portato la mafia ad alzare il tiro e colpire il vertice della magistratura palermitana per dare un segnale intimidatorio inequivocabile, a difesa dei propri interessi criminali che non tolleravano indagini né intromissioni da parte dei poteri dello Stato, con cui dovevano continuare a valere i patti antichi di connivenza e di lottizzazione dei poteri e degli interessi sul territorio.
Appena otto mesi prima un altro delitto eccellente rimasto misterioso, nell’incertezza dell’identificazione di esecutori e mandanti: Piersanti Mattarella, Presidente della Regione, protagonista anche lui di una battaglia intransigente per la trasparenza e la moralizzazione dell’economia pubblica, degli appalti, dei rapporti tra istituzioni e mondo imprenditoriale.
Dopo di loro Rocco Chinnici, Falcone, Borsellino e tanti altri uomini dello Stato decisi ad andare fino in fondo senza compromessi nella lotta contro il potere della mafia, e su tutti questi delitti l’ombra inquietante del dubbio che non ci fosse soltanto la mafia a tirare le fila, ma poteri più alti, più forti, che difendevano un sistema di dominio strutturato anche dentro le istituzioni e connivente con tanti poteri dello Stato.
Ricordare Gaetano Costa non è stata per questo un’occasione rituale, una di quelle passerelle mediatiche che hanno fatto la fortuna di tante superstar dell’antimafia contemporanea, talmente ambigua e “tragediatrice” da indurre la Commissione Parlamentare Antimafia ad indagare in questi giorni proprio sulle sue dinamiche di mistificazione, che hanno fatto parlare più di un analista di “mafia dell’antimafia”.
Gaetano Costa rimane un’icona dell’antimafia che faceva sul serio, svolgeva con professionalità le sue indagini senza favore di telecamere, affrontava silenziosamente i rischi da correre e si assumeva tutte le sue responsabilità. Sentendo soltanto, come usava dire, “il dovere di avere coraggio”. Anche per noi.
A Caltanissetta ricordato Gaetano Costa, icona del l’antimafia che faceva sul serio
Ven, 05/08/2016 - 18:34
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