CALTANISSETTA – Il mito di Dafne ricollocato nella Sicilia del 1942, metamorfosi tragica di una donna annientata dalla violenza, al centro de “Il casellante” di Andrea Camilleri, sceneggiato in un tableau di quadri scenici dalla regia di Giuseppe Di Pasquale, approdato sulle scene al “Margherita” di Caltanissetta dopo il debutto al Festival di Spoleto.
Ricostruita in forma di melologo la Sicilia periferica del tramonto del regime, la vicenda si svolge intorno alla linea ferroviaria punteggiata di caselli, luogo letterario frequentatissimo dalla letteratura del ‘900 (Quasimodo, Vittorini e lo stesso Camilleri per citare gli esempi più noti). La ferrovia era la strada dello Stato, il trait d’union delle poche certezze di un Paese lontano nell’isolamento delle sue periferie, con le sue regole, i suoi orari, quasi una liturgia rassicurante.
Intorno ai suoi snodi le comunità umane, i paesi, con i luoghi di sociabilità, il salone del barbiere-Ovadia con le chiacchiere a suon di musica e con le presenze del potere, di tutti i poteri, dai Carabinieri-musicanti al mafioso che muove le fila nel back-stage di quella società arcaica, e stabilisce chi vive e chi muore, con il linguaggio allusivo e i movimenti felpati, garbati, indiscutibili, con cui riempie discretamente la scena.
Protagonista la musica originale e il canto di Mario Incudine, filo conduttore dello spettacolo con aperture alla poetica del “cunto”, sullo stile di Pirrotta e Cuticchio, a cui è affidato il compito di contestualizzare storicamente lo sguardo sarcastico di Camilleri sulla retorica del fascismo, con gli arrangiamenti dissacranti delle marce del regime di quella colonna sonora che dalla sala da barba percorre le strade di notte della serenata a “scuncio”, commissionata dal boss per innescare una catena di vendette.
Troppo lungo il primo atto, che costruisce l’antefatto del dramma, insieme familiare (la coppia Minica-Nino e il desiderio struggente di un figlio) e collettivo (l’incombere della guerra, la costruzione dei bunker, le trame dei mafiosi, i bombardamenti devastanti).
La tensione tra il desiderio di vita e l’artiglio distruttivo della violenza e della morte è molto meglio rappresentata nel secondo atto, quasi autosufficiente rispetto al primo, in un cui la tensione della separazione tra i due sposi, il carcere di Nino preso nelle maglie del potere e poi “posato” per l’intervento del boss, la solitudine disperata di Minica e la ferocia della violenza che la distrugge, strappandole il bambino che stava finalmente aspettando, ricompongono nella parte finale la risposta della donna alla tragedia: vuole tornare alla terra, sentire le proprie radici e riuscire a generare frutti, ritrovare una vitalità primigenia che la compensi dell’annientamento della sua maternità.
E il marito si ritrova ad assecondarla, ad accudirla in quel suo voler diventare “albero”, che sulla scena la trasforma in una Dafne primitiva, premuroso quanto disperato, fino a quando dalla guerra non verrà la catarsi della vita: un bambino, sopravvissuto ai bombardamenti, che li farà tornare pienamente “umani” entrambi.
Senza la potenza interpretativa di Moni Ovadia, impegnato a sostenere tre parti differenti, tutte ambigue in crescendo, dal barbiere ironico alla mammana sapiente, fino all’efferato stupratore nascosto sotto le sembianze amichevoli di un casellante vicino, lo spettacolo probabilmente non esisterebbe, e sicuramente non avrebbe quel respiro di universalità teatrale che le voci e il canto di Ovadia impongono sulla scena con una forza evocativa eccezionale.
Non basta questo a rendere giustizia al testo di Camilleri, come non basta l’intensità espressiva dell’attrice protagonista, Valeria Contadino. La necessità di una riscrittura dei tempi e delle azioni sceniche appare indispensabile se si vuole valorizzare questo lavoro e rendere più limpido il filo conduttore, il contrasto dei registri paralleli, comico e tragico, che coinvolgono e travolgono i personaggi, se si vuole rendere leggibile nella contemporaneità universale l’ambivalenza e il conflitto tra violenza e natura, tra morte prodotta dagli uomini e vita generata incessantemente dalla natura, che intorno alla femminilità violata di Minica ricostruiscono la possibilità di umanizzare la vita, per tutti. Metamorfosi positiva di una Sicilia stuprata che sembra sempre capace di rigenerarsi.
C’è un respiro profondo nella vicenda raccontata da Camilleri, con una vena di amarezza grottesca che ricorda il miglior Rosso di San Secondo, anche nella rappresentazione del potere oltre che nella capacità di rendere l’umiliazione della donna “cosificata” di tanti suoi capolavori.
Il pubblico del Margherita, dopo un primo tempo annoiato, ha applaudito con entusiasmo il finale, mostrando di saper comprendere, e discernere, al di là della retorica della partecipazione.
E la Strada degli Scrittori, che proprio a Caltanissetta trova il suo capolinea, forse ha bisogno di qualche nuovo casellante.
Mix di noia ed entusiasmo per “Il casellante” di Camilleri al Margherita
Gio, 30/06/2016 - 20:49
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