“Le streghe di Lenzavacche”: il romanzo di Simona Lo Iacono sarà presentato sabato a Caltanissetta

CALTANISSETTA – Appuntamento con la grande letteratura a Caltanissetta, sabato 4 giugno alle 18 presso la libreria La Gilda dei Narratori, in via Kennedy: Simona Lo Iacono, scrittrice e magistrata, presenterà il suo ultimo romanzo “Le streghe di Lenzavacche” (edizioni e/o), finalista al Premio Strega, che verrà assegnato il mese prossimo al Ninfeo di Villa Giulia a Roma.
L’anno del presente del romanzo è il 1938, nell’Italia fascista delle leggi razziali, dittatura che si radica nella Sicilia profonda con l’impianto autoritario della scuola elementare frequentata da tutti, che è uno dei luoghi del racconto.
Lenzavacche è un paesino dal nome immaginario ma dalla struttura antropologica riconoscibile e tenace: la provincia in cui si forma quel senso comune intollerante tipico degli stereotipi di tutti i tempi, l’incubatrice perenne dell’ordine simbolico patriarcale che viene destabilizzato dagli eventi e dai personaggi che vivono nel racconto.
La struttura è articolata in due percorsi speculari, capitolo per capitolo, come un binario. Il racconto delle vicende di Rosalba e di suo figlio Felice e il diario di scuola del maestro Alfredo che scrive ogni giorno una lettera ad una zia misteriosa: le vite parallele, datate, per quattro mesi, dei due protagonisti che non si conoscono, che si incontreranno alla fine e i cui legami che ne intrecciano le esistenze si spiegheranno soltanto nell’epilogo.
A fare da back-stage e da sottotesto interpretativo, un testamento di tre secoli prima (una sorta di “Colonna infame”) che rivela una trama fantastica, tra tempo e spazio, facendo emergere dal mistero i tanti rimandi della narrazione, con un effetto catartico di disvelamento di grande suggestione.
Uomini e donne in entrambi i percorsi, maestre e “maestri maghi e girovaghi”, immersi nel fascino del mistero anche quando sono “scienziati”, come il farmacista Mussumeli, l’unico che nel paese aiuta Rosalba e la sua famiglia anomala, di madri senza uomini ma non senza amore, nella grande casa antica alla periferia del paese, piena di libri, codici di relazioni intense, tra il tempo e lo spazio, tra le anime che abitano, temporaneamente, nei corpi della storia.
Le “streghe” accompagnano con discrezione e una certa allegria impalpabile lo svolgersi degli eventi. Sono streghe-sante, testimoni di solidarietà e di cura amorosa per i più deboli, gli “scarti”, come il piccolo Felice, il figlio di Rosalba, con quel nome da ossimoro provocatorio, lui che era nato diverso, disabile, in un corpo incapace di stare in piedi da solo, di parlare, in un’epoca in cui la perfezione fisica veniva mitizzata come connotato di cittadinanza e riconoscimento di dignità.
Ma Felice è amato, sempre, intensamente, da sua madre e da sua nonna Tilde, maestra delle erbe e della conoscenza antica e misteriosa dei segnali da interpretare, con la sua ermeneutica naturale, che sa intrecciare i fili che non si vedono, al di là del tempo, e costruisce per lui tutti gli strumenti portentosi che gli permetteranno di muoversi, e persino di comunicare con l’alfabeto, di comporre le parole, di potere sognare di andare a scuola.
E’ l’amore come frutto della libertà che annoda i fili delle due narrazioni parallele, l’amore stregone capace di farsi misericordia, cura, come nel racconto delle streghe che tre secoli prima, massacrate in una strage nella loro casa di accoglienza di tante donne abbandonate e dei loro figli, vengono seppellite ad una ad una dall’unica superstite che vuole che anche la loro morte abbia dignità cristiana.
Le streghe capaci di disinnescare la violenza che pure le colpisce, “con tenacia e con passione”, con “certissima visione di futuro”. Le streghe “né serve né padrone”, come scrive l’autrice, custodi delle “historie istigatrici alla libertà”, e per questo sospettate, temute.
Ma sono l’opposto delle streghe di Macbeth, malefiche profetesse del caos del potere: anche per loro, a Lenzavacche, “il brutto è il bello ed è bello il brutto”, ma loro tramano per il bene, vegliando sulla crescita del piccolo Felice contro tutti i cattivi presagi della sua nascita, impegnate a cambiarne il destino possibile, e facendo sentire il soffio del loro sorriso quando le cose vanno per il verso giusto.
I libri coltivano nella contemporaneità della storia quello stesso “potere benigno dell’immaginazione”, e quando Rosalba li legge a Felice gli permette di entrare nel mondo, nella storia, di identificarsi, con la stessa forza con cui, attraverso i libri, era nato l’amore con il suo padre sconosciuto, l’arrotino detto il Santo, strappatole dalla furia intollerante di un sabba di camicie nere, in una notte di assalto alla sua casa.
E il sentiero invisibile che avvicina al sacro le vicende apparentemente pagane dei protagonisti è un altro dei fili conduttori che ci permettono di interpretarle in profondità. In superficie, è una dinamica di attrazione e rifiuto, come Felice chierichetto mancato a cui la Chiesa non offre l’accoglienza e la pietas che il suo disagio dovrebbe suscitare. Ma in profondità è una tensione autentica di amore cristiano, capace di bene-dire, come l’autrice del testamento antico, che si presenta “assolta da ogni peccato” prima di raccontare, per tramandare, la memoria dell’ingiustizia di cui è stata testimone.
Il tempo è lo scenario mobile e misterioso che contestualizza gli eventi e si offre come “seconda opportunità” per sanare le ferite della storia: il tempo che segna le generazioni e il tempo-narrazione, quello del racconto della vita “che pare un’altra se viene raccontata”, che “pure la morte non ci fa scantu”, come dicono i ragazzi a scuola al maestro che li incanta leggendo loro i libri, con grave disappunto delle autorità scolastiche del regime.
E’ un tempo-durata, senza cesure cronologiche, con le cose che parlano “a ricordare ai vivi la loro precarietà, e ai morti la loro eternità”, in comunicazione costante, viva, così come per la nascita di Felice, che viene da un passato lontano e lo aveva reso subito, per questo, “benvenuto tra i vivi e tra i morti”.
E’ il tempo del realismo magico del padre-arrotino evocatore di Vittorini, con il suo arrotino Calogero, cospiratore antifascista negli stessi anni in cui si svolge il racconto, che chiedeva anche lui, come il Santo di Lenzavacche, se ci fossero lame da arrotare, (o coscienze pronte a vivere per la libertà).
Dal tempo dimenticato emergerà la legge che realizza il sogno di Felice: andare a scuola! Dove incontrerà finalmente Alfredo, il maestro, segnato dalle mani “ombreggiate d’inchiostro” come dalle stimmate della libertà di pensiero. Era una legge filtrata inosservata attraverso il regime che prevedeva la possibilità per i disabili di potersi iscrivere a scuola, in classi differenziate. Una legge inapplicata che riusciva a fare giustizia, quella giustizia “diseredata e tradita” che Rosalba faceva vivere nelle storie che raccontava al figlio, e che Tilde invocava “tra le misture delle sue sante streghe”, perché nel mondo non la si trovava.
La giustizia delle madri, quelle credute “disonorate e senza Dio” e che invece “vegliano sul sonno, proteggono i deboli, non giudicano il prossimo. Sono stravaganti, disordinate e vedove. Ma sono le madri”.
Egemonia del pensiero femminile, forte della sapienza dell’amore incondizionato e gratuito, è l’anima di questo romanzo. Che oggi è finalista al Premio Strega, e titolo non poteva essere più naturale.
Simona Lo Iacono è siracusana, ha vinto il Premio Vittorini Opera prima con “Tu non dici parole” nel 2009 e nel 2010 il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa, il Premio Ninfa Galatea nel 2011 con “Stasera Anna dorme presto”, il Premio Martoglio con “Effatà” e il Premio Donna Siciliana 2014. Cura per “La Sicilia” la rubrica “Scrittori allo specchio” e conduce sul digitale terrestre BUC, un format letterario che “contamina” la letteratura con varie altre discipline artistiche.

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